LA "GERAÇÃO MAPA" DI SALVADOR BAHIA: POESIA IN TEMPI DI BOEMIA LETTERARIA -testo in italiano e in portoghese-
FLORISVALDO MATTOS
Gli integranti delle Riviste "Mapa" e "Ângulos" a Salvador Bahia nel 1959
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

Ci fu un tempo in questa Città di Salvador in cui le riunioni sociali, più che una forma di convivio tra amici, erano un rifugio di cui frequentemente si avvaleva la boemia letteraria per favorire lo scambio cordiale delle idee che molte volte si tramutavano in sfide e tornei di emulazione. A volte diveniva una contesa rude e acuiva la curiosità del  pubblico che li accompagnava avidamente, da vicino o da lontano. Nelle riunioni si divulgava molto della creazione letteraria e artistica che poi si sarebbe sparsa nel mondo. Questa distrazione intellettuale con il tempo svanì, perse l’antica caratteristica di urbanità  per poi sparire dalle pratiche culturali e entrare a far parte di un’aneddotica.

Nel 1958 già non si parlava più di questa specie di concorso civilizzato. Ma in un bar di via da Ajuda, nel corso di una riunione boemia che vide insieme poeti, letterati e giornalisti, accadde che due sonetti smisero di essere remoti stadi di animo e sottigliezza mentale per seguire un cammino che appartiene a tutti coloro che viaggiano attraverso il terreno dei simboli.  A partire dagli anni ’40 avvengono profonde alterazioni nell’ordine sociale ed economico con forti riflessi nella cultura. Bahia che era terra del “già fu” acquista una nuova configurazione demografica e urbana, sospinta dalla scoperta del petrolio nel Recôncavo e la conseguente nascita di un processo di industrializzazione, liberandosi dalla dipendenza del commercio agroesportatore che aveva il suo punto forte nel cacao.

La nuova dinamica proveniente dalle trasformazioni nel sistema di trasporti rodoviari e aeroviari rendono piu rapide le relazioni tra il sud ricco e il nordest povero avvicinando centri di consumo e rifornimento di beni e mercanzie. Infine avvengono mutamenti nel panorama culturale: la gestione liberale di Anisio Teixeira nella segreteria della Educazione e Cultura, il governo Mangabeira (1947-1951). Questi mutamenti vengono accentuati grazie alla rivoluzione che il rettorato di Edgar Santos effettua nella Università di Bahia negli anni ’50 con la creazione di nuove scuole di arte e istituti specializzati, oltre a rifomulare unità già esistenti. Tutti, quasi all’unisono vogliono elevare il benessere dei baiani.

Questi successi si rifletteranno direttamente nello sviluppo della città di Salvador che, stanca del vecchio profilo provinciale, comincia allora a sognarsi cosmopolita. In un primo momento le lettere e le arti entrano in agitazione nell’ansia di liberarsi dalle corde del conservatorismo imperante con la presenza e l’azione di giovani artisti plastici (Mário Cravo Júnior, Carlos Bastos, Carybé, Genaro, Jenner Augusto, Rubem Valentim), romanzieri e poeti (Vasconcelos Maia, José Pedreira, Wilson Rocha, Jair Gramacho), allargandosi ad altri campi (architettura e mondanità, di incursioni perfino alla politica) con il soffio dei venti liberalizzatori della Costituzione del 1946. L’intreccio tra la vita intellettuale mondana e universitaria fa sorgere, quindi, con tinte esistenzialiste il primo luogo comodo della boemia letteraria nella città: il Bar Anjo Azul nella via do Cabeça, che sarebbe divenuta d’ora in avanti un emblema locale, una marca nel genere.

Era la vibrante presenza della Generazione Caderno da Bahia nella città e impegnata a far emergere l’ideario estetico del modernismo, la cui adozione piena era stata bloccata per due decenni da un accademicismo insensibile. In questo momento mi ricordo una poesia evocativa che scrissi molti anni dopo riportando le emozioni e l’ambiente urbano a partire dalla notte in cui calpestavo per la prima volta l’asfalto della città. Con il titolo Tempos de Arlequim , composta di versi cadenzati, ma senza rime, integra il libro Mares anoitecidos che pubblicai nel 2000 come parte di una collezione sui 500 anni della Scoperta. E che riproduco qui:
 
Salvador è Carnevale. Quando arrivai, /La notte del lunedì grasso/I colori della città ammaliante/E i miei occhi nella piazza si affumicavano.//C’era il corso e i blocchi veterani/(Nomi chiari che oggi fanno sognare)./Escono gli Innocenti in Progresso/ Scendono i Mercanti di Bagdad //Nel Bob’s Bar, che poi diventerà Cacique, / Si fermano il suono traverso e l’affettazione/Della chitarra elettrica nella Fobica;/Una stella spunta e, con la sua luce,//La moltitudine che salta e agita rami/ […] Canta, danza, grida, beve birra./E io lì che faccio? Accompagno il passo.//Battaglie di confetti e serpentina/Pierrots, lancia-profumi, colombine /addobbando la via Chile/dove sfilano afoxés. (La brezza//E’ più un concorrente della follia/E io, occhi posti in trama lontana/Di sogni che ruotano in un salone /E in una strada, specchio dell’infinito).//Avanza per il tempo di incertezze/La maschera seduttrice del pasato,/Blocchi di cibi che fecondano le aurore/E il meriggiar di eteree batucade.//Subito sono mulatte di un cordone;/Arlecchino invasore dell’alba/Si aggrappa alla cintura di una di loro/E sale la piazza verso la Sé che ferve.
 
Arrivai a Salvador in questa atmosfera di sogno e speranze nel febbraio del 1952. Era  una notte di Lunedì Grasso di Carnevale e giunsi da Itabuna per studiare nel rinomato Colégio da Bahia e quindi frequentare l’università. Frequentavo la  Facoltà di Diritto quando iniziai a pubblicare poesia nella rivista Ângulos, allora prestigiosa pubblicazione del Centro Accademico Ruy Barbosa, della Facoltà di Diritto (CARB) e integravo il nucleo di giovani, più avanti denominato Geração Mapa che ribolliva tra il successo e lo scandalo, con le presentazioni dei suoi spettacoli di poesia drammatizzata nell’auditorio del Colégio da Bahia, etichettati come giullareschi verso il 1956-57.

Glauber Rocha era già quasi un capo che li guidava. Là  transitava una irrequieta malta di recitatori composta da poeti, artisti plastici, drammaturghi,  cineasti, attori e futuri giornalisti (Fernando da Rocha Peres, João Carlos Teixeira Gomes, Paulo Gil Soares, Calasans Neto, Sante Scaldaferri, Ângelo Roberto, Fernando Rocha, Carlo Anísio Melhor, Fred Souza Castro, Antonio Guerra Lima, Anecy Rocha per citarne alcuni), protetti della furia proibitiva e coercitrice della pressionata direzione del collegio dal professor Ruy Simões, un fervente alleato e difensore delle ansie giovanili.

Ricordo l’incontro che mi avrebbe lanciato in questa caudale di sogni con cornice esotica se non comica. Alla fine del 1956 il n. 11 della rivista Ângulos pubblicava la mia poesia “Composição de ferrovia”, quasi un inno tellurico allo State of Bahia South Western Railway Company, antico nome della poi mitica E.F.I.C. (Estrada de Ferro da Ilhéus a Conquista), che sviluppò la regione del Cacao permettendo il sorgere di villaggi che presto sarebbero divenuti città e municipi e il conseguente sviluppo della produzione che generava ricchezza. Un giorno mentre ero seduto su una panchina della hall della facoltà mi avvisarono che stavano indagando su di me nel portierato. Esco sulla soglia e incontro cinque facce quasi senza barba.

Subito uno di loro mi saluta e parlando a nome di tutti gli altri esclama con enfasi:”Siamo venuti qui per conoscere l’autore della poesia Composição da Ferrovia, per noi il migliore poeta modernista di Bahia”.  Ascoltai diffidente, ma tra l’impaurito e l’incredulo, ringraziai il gesto ilare. Il nome dell’eccentrico portavoce: Glauber Rocha che, in seguito, mi invita ad andare a casa sua, a rua General Labatut n. 13 primo piano, dove, diceva, aveva l’abitudine di riunirsi con amici per discutere una quasi infinita gamma di inquietudini, aspirazioni e piani modernisti.

L’entrata di Glauber Rocha nello scenario suggerisce una nuova parentesi per evocare un episodio di connotazione ancor più comica, prodotto di un viaggio che fece al Nordest nel 1960 accompagnato da Joao Carlos Teixeira Gomes durante il quale, scendendo dall'autobus,  ebbe un incidente che lo forzò a passare il resto del viaggio con il piede fasciato. Con la testa piena di progetti, in questo viaggio Glauber cercava di cogliere sussidi e ispirazione che avrebbero composto le sceneggiature di due delle sue opere prime cinematografiche Deus e Diabo na Terra do Sol e O Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro. Ad un certo punto del viaggio si fermarono a Recife e girando la città si incantarono con il poeta Ascenso Ferreira, una delle icone del primo modernismo al lato di Manuel Bandeira, l’altro pernambucano.

Colpiti da questa istrionica figura, decisero di invitarlo a visitare Bahia. Poco tempo dopo, con i suoi due metri di altezza, 120 kg di peso, cappello panama a falde larghe, camicia bianca e cravatta, il poeta di Catimbò e Cana Caiana giunge a Salvador dove lo circondano di omaggi. Tiene conferenze, assiste a pièces teatrali, passeggia e, principalmente percorre e frequenta bar e ristoranti, mangiando e bevendo, con gli onori che si devono ai visitanti illustri o boemiens famosi e si fera quasi un mese a Salvador. Alla vigilia del ritorno a Recife, Glauber e i più assidui negli scherzi decisero di fare una festa al poeta e convocarono la stampa per una intervista.

Nel clima della festa, conversazione mista a birra e prelibatezze che giungevano al fine, un giornalista chiese al poeta:”Ascenso, durante tutti questi giorni che ha passato qui, cosa lo ha impressionato e gli è piaciuto nella Bahia?” Ascenso si fermò, la fronte si solcò, guardò sorridente e bonaccione il giovane e, ricordando ciò che faceva naturalmente per le strade, quando era poco sobrio, disse: “La libertà di pisciare”. Mi associai al gruppo e mi coinvolsi nella saga delle avventure editoriali e artistiche riflessa in una vasta gamma di azioni che riguardavano letteratura, teatro, cinema, arti plastiche e giornalismo. E subito iniziarono a sorgere libri con l’etichetta delle Edizioni Macunaima, progetti cinematografici con la nascente Iemanjà Filmes, dipinti, sculture e gravure nelle gallerie d’arte che si montavano allora; varie pièces portate nello spazio della giovane Scuola di Teatro, diretta dal pernambucano Martim Gonçalves.

Presto anche una rivista: Mapa e l’indimenticabile SDN, il supplemento letterario domenicale pubblicato dal Diario de Noticias di Assis Chateaubriand. Tutto rimandava ad un vento vertiginoso di aspirazioni innovatrici. Ai nomi citati bisogna ricordare altri aderenti come me: Myriam Fraga, João Ubaldo Ribeiro, Sonia Coutinho, David Salles, Valdeloir Rego, oltre all’allora appena dentista (poi professore e autorità in antropologia culturale) Vivaldo Da Costa Lima. In questo contesto non si deve dimenticare la singolare, solidaria e entusiasta presenza di un esperto librario, Zitelmann de Oliva, ora a capo dell’impresa Artes Graficas che allora operava a rua do Saldanha. Il suo appoggio permise non solo la realizzazione dei progetti editoriali del gruppo, ma anche il lancio dei primi libri di poesia, romanzi, l’edizione di album di gravura e dei tre unici numeri della rivista Mapa tra il 1957 e 1958.

Siccome a quell’epoca i tempi della libertà si sposavano con la vita boemia, sia i ragionamenti febbrili che i dibattiti intensi esigevano che la geografia della cordialità si estendesse in diversi punti, dove le riunioni divenissero abituali. Allora i più frequentati erano: la Sorvetaria Cubana, ancora oggi là, nella parte alta dell’Elevador Lacerda, il Bar e Ristorante Cacique nella Piazza Castro Alves, ma all’epoca si chiamava Largo do Teatro, il Bar Anjo Azul  e il Ristorante Porto do Moreira, il Bar Brasil e il Cheza Bernard, una novità che si era installato nel terrazzo inaugurato dell’Edificio Themis, ambedue nella Praça da Sé. A volte anche il Colòn, nella Piedade. E, alla fine della notte, quando tutto era chiuso il romantico Zé de Esquife, un vario e illuminato tavolone di prelibatezze fatte in casa che si apriva alla voracità boemia nella Piazza Castro Alves, a circa dieci metri dalla statua del poeta, vicino alla balaustra sulla Ladera da Montanha.

Tutti avrebbero storie piacevoli da raccontare di questo che oggi, per molti, è un urbano paradiso perduto, deposito di sensazioni e conquiste inaudite. Ma di tutti questi luoghi, forse il Porto di Moreira è quello che per la qualificazione e varietà della clientela conserva la memoria di casi degni di essere registrati. Fondato nel 1938 dal portoghese José Moreira (o Sêo Moreira), offrendo ai suoi clienti un assiduo e vasto menù di piatti fatti in casa di ispirazione luso e baiana, divenne ben presto una casa i cui tavoli riunivano ogni giorno la crema della intelligenza e della burocrazia rappresentata da scrittori, poeti, artisti plastici, professori, giornalisti, professionisti liberali, membri della magistratura oltre a politici, funzionari pubblici e commerciali che gli davano un colore locale come ancora oggi accade in questo ameno quasi ottuagenaio angolo. Oltre alla cordialità e simpatia del padrone, virtù trasferite ai figli Antonio e Francisco che nella condizione di eredi ancora oggi mantengono il famoso posto come fosse una icona di piaceri gustativi nella geografia della città.[....]

Oltre a questi posti e alle cantine della facoltà gli incontri avvenivano nelle sessioni domenicali del
Clube de Cinema da Bahia con un misto di avvocato del lavoro e critico del cinema di nome  Walter da Silveira nelle sale di attesa dei cinema, soglie di libreria e hall di facoltà. La città tranquilla era così intensa e ludicamente vissuta, giorno e notte, in gesta che giungevano fino all’alba. Torno ora all’inizio, alla storia dei due sonetti nati da un vecchio incontro letterario al crepuscolo di un bar in anni di boemia e giornalismo romantico. Narro un episodio eccentrico. Notte di primavera, alcuni giorni dopo la nascita del Jornal da Bahia in rua Virgilio Damasio n. 3, una trasversale di rua Chile in uno dei tavoli di marmo del Bar Nogueira, allora uno dei più esclusivi di rua da Ajuda, vicino al famoso Café das Meninas.

Alcuni amici sono seduti nel bar. Due di loro sono poeti e due sono attempati giornalisti. I poeti: io, un mero iniziante nella poesia e nella stampa. L’altro è Jair Gramacho, uno dei più prestigiosi membri della Geração Caderno da Bahia nella quale disputavano nomi importanti come il poeta Wilson Rocha, ambedue erano icone locali del modernismo. I due giornalisti erano Ariovaldo Matos, romanziere e autore di “Corta Braço”, romanzo pioniere ispirato ad una invasione di terre accaduta nel quartiere della Liberdade e il cronista Flavio Costa, sottosegretario di redazione che aveva appena lanciato “Além das torres do Kremlin”, racconti di viaggi a Mosca. L’altro era Capo di Reportage del nuovo giornale che prima aveva esercitato lo stesso incarico ne O Momento, agguerrito giornale che funzionava nella Ladeira de São Bento (1945-1957) e di proprietà del Partito Comunista do Brasil, o Partidão, fondato e mantenuto da Aristeu Nogueira e João Falcão, questi, poi, fondatore dello stesso  Jornal da Bahia.

Si parlava di letteratura e politica come sempre quando, all’improvviso, cosa di boemiens, sorge una sfida per sapere chi dei due poeti avrebbe scritto meglio un sonetto.
Non ricordo l’autore del repentino suggerimento, neppure il grado dell’effetto etilico che, indulgente, l’Angelus da Igreja da Ajuda là vicino, accarezzava. Sorpresi, i due poeti si guardarono, chiesero la misura della sfida, ma, fatto una sorta di regolamento, sorseggiarono ancora un pò e se ne andarono. Due giorni dopo, così come combinato, tornammo noi quattro allo stesso bar, ognuno dei due poeti impugnava la sua Excalibur verbale: io con il sonetto intitolato “A cabra” di candida ispirazione rurale, composto nel classico formato petrarchesco, con i quattordici versi disposti in due quartine e due terzine.

Lui, Hair Gramacho, con un sontuoso gioiello lavorato al modello shakesperiano, di tre quartine integrate e un distico, ampio, di allusioni panteiste e riferimenti mitologici, invocando leggende campestri su Meleagro, eroe di Calidonia. Ma sia l’uno che l’altro costruiti in decasillabi di rime accoppiate e intrecciate.
Compiendo il rituale e con la dovuta intonazione, ogni autore lesse il suo sonetto. Com postura di giudici, dopo averli uditi e valutati, in silenzio, i due giornalisti conclusero sorridenti che i due poemi meritavano la pubblicazione più ampia, nella edizione domenicale del Jornal da Bahia. Detto e fatto.

Giorni dopo con vernice grafica di prestigio, ambedue i sonetti occupavano le due colonne al lato destro della pagina letteraria, pubblicati sotto la battura dello storico e cronista Luis Henrique Dias Tavares, ma senza neppure una linea allusiva alla sfida avvenuta nel bar da Ajuda. Una volta pubblicati, ognuno dei due sonetti sarebbe stato obiettivo di accoglienza corporativista: il mio, con recitazione e elogi del gruppo al quale appartenevo mentre quello di Jair fu molto più lodato e non solo da nomi consacrati della sua generazione.

Nel 1960 i due poemi sarebbero stati di nuovo pubblicati nella rivista Ángulos (n. 16),  allora diretta da Noênio Spinola (direttore), con Antênio Guerra Lima (Guerrinha), redattore capo e João Ubaldo Ribeiro, direttore di Cultura del CARB. Ma, in generale, ognuna delle creazioni poetiche, d’ora in avanti, avrebbe fatto un cammino diverso: “A cabra” avrebbe fatto parte del mio primo libro “Reverdor” (Edizioni Macunaima, 1965) mentre lo squisito sonetto di Jair Gramacho, per quello che so, rimane fino ad oggi inedito. Sono loro che riproduco qui sotto, e per primo, per diritto inalienabile, metto il sonetto del mio caro e insigne emulo.

SONETO OITAVO DE ATALANTA EM CALIDÔNIA
 
                                                                       JAIR GRAMACHO
Nesta tarde o terreiro está vazio.
Distante o laranjal se estende; a manga,
A serra, o azul depois; tênue miçanga
De açafrão tinge as fímbrias, o do estio
Único resto. Esta tristeza é mais
Que a da paisagem pobre e adormecente;
Talvez por não ter rosas, não ter gente,
E a solidão vagueie pelos currais.
Mas, certo é que nesta hora, ressurrecto,
O mito abandonado busca o luxo
Antigo de existir; dispõe espectros
Que em volta cirandeiam do repuxo...
         Ah! Mais que basta para o instante magro
         Galinhas ver – irmãs de Meleagro!
 
A CABRA
 
                        FLORISVALDO MATTOS
 
 
Talvez um lírio. Máquina de alvura
Sonora ao sopro neutro dos olvidos.
Perco-te. Cabra que és já me tortura
Guardar-te, olhos pascendo-me vencidos.
 
Máquina e jarro. Luar contraditório
Sobre lajedo o casco azul polindo,
Dominas suave clima em promontório;
Cabra: o capim ao sonho preferindo.
 
Sulca-me perdurando nos ouvidos,
Laborado em marfim – luz e presença
De reinos pastoris antes servidos –
 
Teu pelo, residência da ternura,
Onde fulguras na manhã suspensa:
Flor animal, sonora arquitetura.
 
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Testo della conferenza pronunciata da Florisvaldo Mattos IL 18  LUGLIO 2012 durante il seminario “Memórias Cruzadas da Cidade do Salvador” promossa dalla Fundação Pedro Calmon e il moderatore è stato il suo presidente, lo storico Ubiratan Castro, nell’auditorium della Biblioteca Publica dello Stato di Bahia, nel quartiere di Barris nella parte circoscritta al tema A cidade da Boemia tendo come focus “la boemia letteraria e il legame della vita intellettuale, mondana e universitaria che assorbirono intensamente generazioni di intellettuali trasformatori e movimenti di avanguardia nella Salvador degli anni ‘50
Traduzione di Antonella Rita Roscilli

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Florisvaldo Mattos
. Originario di Uruçuca, nel sud dello stato di Bahia (Brasile). E’ poeta e giornalista, professore in pensione della Università Federale di Bahia. Ha avuto incarichi in vari giornali, tra i quali quello di editore capo (“Diário de Notícias” e “A Tarde”, ambedue di  Salvador). E’ stato corrispondente e capo della succursale di bahia del “Jornal do Brasil” (RJ). Per più di dieci anni  si è occupato del supplemento settimanale “A Tarde Cultural”, premiato nel 1995 dalla Associação Paulista de Críticos de Arte (APCA), como Il migliore del Brasile nel punto della Divulgazione Culturale. Dal 1995, ocupa Il seggio nº 31, della Academia de Letras da Bahia. Dal 1987 e il 1989 occupò l’incarico della Presidenza della Fundação Cultural do Estado (Funceb), Opere pubblicate: Reverdor, 1965; Fábula Civil, 1975; A Caligrafia do Soluço & Poesia Anterior, 1996; Mares Anoitecidos, 2000; Galope Amarelo e Outros Poemas, 2001; Poesia Reunida e Inéditos,2011; Sonetos elementais – Uma antologia, 2012 (todos de poesia).Estação de Prosa & Diversos, 1997); A Comunicação Social na Revolução dos Alfaiates, 1998 e Travessia de oásis - A sensualidade na poesia de Sosígenes Costa, em 2004 (gli ultimi sono saggi).


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TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

                                                                
Houve um tempo nesta Cidade do Salvador em que, mais que uma forma de convívio entre amigos, as tertúlias eram um refúgio de que frequentemente se valia a boemia literária, para fruir o intercâmbio cordial das ideias, que muitas vezes, desaguava em desafio, em torneios de emulação, quando não em contenda rude, açulando a curiosidade de uma audiência, que as acompanhava avidamente, de perto ou à distância. E nelas muito de criação literária e artística se divulgava, para depois ganhar o mundo. Essa distração intelectual com o tempo se esvaneceu, perdeu a antiga feição de urbanidade, para quase completamente sumir das práticas culturais, passando a compor um vasto anedotário. Em 1958, já não mais se falava dessa espécie de concurso civilizado, mas ocorreu que, em um bar da Rua da Ajuda, no curso de uma tertúlia boêmia, que reunia poetas, literatos e jornalistas, dois sonetos deixariam de ser remotos estados de ânimo e sutileza mental, para cumprir um trajeto que pertence a todos os que viajam pelo terreno dos símbolos.

A partir dos anos 1940, quando profundas alterações ocorrem na ordem social e econômica, com fortes reflexos na cultura, a Bahia, que era a terra do “já foi”, toma outra configuração demográfica e urbana, impulsionada pela descoberta do petróleo no Recôncavo e a conseqüente deflagração de um processo de industrialização modernizador, livrando-se da dependência do comércio agroexportador, que tinha sua robustez centrada no cacau; nova dinâmica advinda das transformações no sistema de transportes rodoviário e aeroviário torna mais rápida a relação entre o Sul rico e o Nordeste pobre, aproximando centros de consumo e fornecimento de bens e mercadorias; por fim, ocorrem mudanças no panorama cultural, desde a gestão liberal de Anísio Teixeira na Secretaria da Educação e Cultura, no Governo Mangabeira (1947-1951), acentuadas pela revolução que o reitorado de Edgar Santos imprimirá na Universidade da Bahia, nos anos 1950, criando novas escolas de arte e institutos especializados, além de reformular unidades já existentes. Todos, quase em uníssono, querendo elevar o bem-estar dos baianos.

Tais sucessos vão se refletir diretamente no desenvolvimento da Cidade do Salvador, que, cansada e envergonhada do velho perfil provinciano, começa então a sonhar-se cosmopolita. Num primeiro momento, as letras e as artes entram em agitação, na ânsia de se libertar das amarras do conservadorismo imperante, com a presença e a ação de jovens artistas plásticos (Mário Cravo Júnior, Carlos Bastos, Carybé, Genaro, Jenner Augusto, Rubem Valentim), ficcionistas e poetas (Vasconcelos Maia, José Pedreira, Wilson Rocha, Jair Gramacho), espraiando-se para outros campos (arquitetura e mundanismo, de incursão até na política), ao sopro dos ventos liberalizantes da Constituição de 1946. O entrelaçamento entre a vida intelectual mundana e universitária faz surgir, então, com tinturas existencialistas, o primeiro pouso aconchegante da boemia literária na cidade, o Bar Anjo Azul, na Rua do Cabeça, que se tornaria doravante um emblema local, um marco no gênero. Era a vibrante interseção na cidade da Geração Caderno da Bahia, empenhada em fazer vingar o ideário estético do modernismo, cuja adoção plena o academicismo rotundo e insensível travara por dois decênios.

Neste momento, uma coceira mental me traz à lembrança um poema evocativo que escrevi muitos anos depois, repercutindo as emoções e o ambiente urbano, com que me defrontei, a partir da noite em que pisava pela primeira vez o asfalto da cidade. Sob o título de “Tempos de Arlequim”, composto de versos cadenciados, mas sem rimas, integra o livro Mares anoitecidos, que publiquei no ano 2000, como parte de coletânea alusiva aos 500 anos do Descobrimento. Não me envergonha reproduzi-lo.

Salvador é Carnaval. Quando cheguei, / Em noite de Segunda-Feira Gorda, / As cores da cidade feiticeira / E os meus olhos na praça fumegavam. // Havia corso e blocos veteranos / (Nomes claros que hoje fazem sonhar). / Sobem os Inocentes em Progresso, / Descem os Mercadores de Bagdad. // No Bob’s Bar, que depois será Cacique, / Param o som travesso e a peraltice / Da guitarra elétrica na Fobica; / Uma estrela desponta e, com a luz dela, // A multidão que pula e agita ramos / (A prévia tosca da mamãe- sacode) / Canta, dança, grita, bebe cerveja. / Eu ali que faço? Acompanho o passo. // Batalhas de confete e serpentina, / Pierrôs, lança-perfume, colombinas, / Estrelejando o chão da Rua Chile, / Onde desfilam afoxés. (A brisa // É mais um concorrente da folia, / E eu, olhos postos em longínqua trama / De sonhos dando voltas num salão / E numa rua, espelho do infinito). // Avança por meu tempo de incertezas / A máscara sedutora do passado, / Blocos de rancho fecundando auroras / E o entardecer de etéreas batucadas. // Súbito são morenas de um cordão; / Arlequim invasor da madrugada / Agarra-se à cintura de uma delas / E sobe a praça rumo à Sé que ferve.

É nessa atmosfera de sonho e esperanças que desembarco em Salvador, em fevereiro de 1952, numa noite de Segunda-Feira Gorda de Carnaval, vindo de Itabuna, para estudar no paradigmático Colégio da Bahia e depois cursar universidade. E é a partir da Faculdade de Direito, já publicando poesia na revista Ângulos, então prestigiosa publicação do Centro Acadêmico Ruy Barbosa, da Faculdade de Direito (CARB) que venho integrar o grupo nuclear de jovens, adiante dito Geração Mapa, que borbulhava entre o sucesso e o escândalo, com as apresentações de seus espetáculos de poesia dramatizada no auditório do Colégio da Bahia, rotulados de Jogralescas, por volta de 1956/57.

Glauber Rocha à frente, e já se insinuando líder, por lá transitava uma irrequieta malta de declamadores composta de poetas, artistas plásticos, teatrólogos, cineastas, atores e futuros jornalistas (Fernando da Rocha Peres, João Carlos Teixeira Gomes, Paulo Gil Soares, Calasans Neto, Sante Scaldaferri, Ângelo Roberto, Fernando da Rocha Peres, Carlos Anísio Melhor, Fred Souza Castro, Antônio Guerra Lima, Anecy Rocha, cito alguns), protegidos da sanha proibitiva e coercitiva da pressionada direção do colégio pelo professor Ruy Simões, um fervoroso apoiador e defensor desses anseios juvenis.

Recordo o encontro que me lançaria nessa caudal de sonhos, com moldura exótica, senão cômica. Em fins de 1956, o Nº 11 da revista Ângulos publicava o meu poema “Composição de ferrovia”, quase um hino telúrico à State of Bahia South Western Railway Company, antigo nome da depois mítica E. F. I. C. (Estrada de Ferro de Ilhéus a Conquista), que civilizou e desenvolveu a Região do Cacau, permitindo o surgimento de vilas, que logo seriam cidades e municípios, e o conseqüente desenvolvimento da produção, gerando riqueza. Foi quando certa manhã, eu sentado num dos bancos do hall da faculdade, vêm me avisar que indagavam por mim na portaria. Saio para o umbral e me deparo com cinco rostos quase imberbes.

Logo, um deles me saúda e, dizendo falar em nome dos outros, exclama, enfático: “Viemos aqui para conhecer o autor do poema “Composição de ferrovia”, para nós o melhor poeta modernista da Bahia”. Ouvi desconfiado, mas, entre assustado e incrédulo, agradeci o hilário gesto.
Nome do excêntrico porta-voz: Glauber Rocha, que, em seguida, me convida a ir à sua casa, na Rua General Labatut, Nº 13, 1º andar, onde, dizia-me, costumava se reunir com os companheiros, para discutir uma quase infinita pauta de inquietações, aspirações e planos modernistas.

A entrada de Glauber Rocha no cenário sugere novo parêntese para evocar episódio de conotação ainda mais cômica, produto de uma viagem que fez ao Nordeste, em 1960, acompanhado de João Carlos Teixeira Gomes, durante a qual este sofreu um acidente, ao descer de um ônibus, forçando-o a passar o restante do trajeto com o pé enfaixado. Com a cabeça atulhada de projetos, buscava Glauber, nesta viagem, colher subsídios e inspiração que iriam compor os roteiros de duas de suas obras primas cinematográficas, Deus e o Diabo na Terra do Sol e O Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro. A certa altura da excursão, pararam em Recife e, nas andanças por lá, se encantaram com o poeta Ascenso Ferreira, um dos ícones do primeiro modernismo, ao lado de Manuel Bandeira, outro pernambucano. Impressionados com a histriônica figura, resolveram convidá-lo a visitar a Bahia.

Pouco depois, com seus dois metros de altura, 120 quilos de peso, chapéu panamá de aba larga, terno branco e gravata, o poeta de Catimbó e Cana Caiana, desembarca em Salvador, onde o cercam de homenagens e rapapés, faz conferências, assiste a peças teatrais, passeia e, principalmente percorre e freqüenta bares e restaurantes, comendo e bebendo, com as honrarias que se devem a visitantes ilustres ou boêmios consagrados, demorando-se em Salvador por cerca de um mês.

Na véspera de voltar ao Recife, Glauber e os mais assíduos nas estripulias resolveram fazer uma despedida, convocando a imprensa para uma entrevista com o pernambucano. Em clima de festa, conversa regada a cerveja e acepipes já chegando ao fim, um jornalista pergunta ao poeta: “Ascenso, durante todos esses dias que por aqui passou, o que mais o impressionou e agradou na Bahia? Ascenso parou, franziu a testa, olhou sorridente e bonachão para o jovem e, lembrando talvez o que fazia naturalmente nas ruas, quando pouco sóbrio, disparou: “A liberdade de mijar”.  
 
Associei-me ao grupo e me engajei na saga de suas aventuras editoriais e artísticas, refletida numa vasta gama de ações, envolvendo literatura, teatro, cinema, artes plásticas e jornalismo. E logo começariam a surgir, em torrente, livros com o selo das Edições Macunaíma; projetos cinematográficos pela nascente Iemanjá Filmes; pinturas, esculturas e gravuras, em galerias de arte, que se montavam então; variadas peças levadas no espaço da jovem Escola de Teatro, dirigida pelo pernambucano Martim Gonçalves; logo também, uma revista, a Mapa, e o inesquecível SDN, o suplemento literário dominical editado pelo Diário de Notícias, de Assis Chateaubriand, rematavam um vertiginoso leque de aspirações inovadoras. Aos nomes citados, vale lembrar outros aderentes, como eu: Myriam Fraga, João Ubaldo Ribeiro, Sônia Coutinho, David Salles, Valdeloir Rego, além do então apenas dentista, depois professor e autoridade em antropologia cultural, Vivaldo da Costa Lima.

Neste contexto, não se deve esquecer a singular, solidária e entusiástica presença de um antes experiente livreiro, Zitelmann de Oliva, ora à frente da empresa Artes Gráficas, então operando na Rua do Saldanha, cujo apoio permitiu não apenas a realização dos projetos editoriais do grupo, com o lançamento dos primeiros livros de poesia e ficção, como ainda a edição de álbuns de gravura e dos três únicos números da revista Mapa, entre 1957 e 1958. Como então os tempos de franca liberdade se casavam com a vida boêmia, febris cogitações e intensos debates exigiam que a geografia da cordialidade se estendesse por diversos pontos, onde as tertúlias se tornariam habituais. Eram então os mais freqüentados: a Sorveteria Cubana, ainda hoje lá na parte alta do Elevador Lacerda; o Bar e Restaurante Cacique, na Praça Castro Alves, mas ainda à época chamada de Largo do Teatro; o Bar Anjo Azul e o Restaurante Porto do Moreira; o Bar Brasil e o Chez Bernard, novidade que se instalara no terraço inaugural do Edifício Themis, ambos na Praça da Sé; e, às vezes, o Colón, na Piedade.

E, nos fins de noite, com tudo fechado, o romântico Zé do Esquife, um variado e iluminado tabuleiro de iguarias caseiras, que se abria à voracidade boêmia, a uns dez metros da estátua de Castro Alves, junto à balaustrada. Desse hoje para muitos um urbano paraíso perdido, repositório de sensações e conquistas inauditas, todos teriam histórias prazerosas a contar, mas, de todos esses lugares, talvez seja o Porto do Moreira o que, pela qualificação e variedade da clientela, mais guarde a memória de casos dignos de registro. Fundado em 1938 pelo português José Moreira (o Sêo Moreira), e facultando a seus clientes um assíduo quanto vasto cardápio de pratos caseiros de inspiração lusa e baiana, tornou-se desde cedo uma casa de pasto cujas mesas reuniam diariamente a nata da inteligência e da burocracia, representada por escritores, poetas, artistas plásticos, professores, jornalistas, profissionais liberais, membros da magistratura, além de políticos, funcionários públicos e comerciários, que lhe davam cor local, como até hoje ocorre neste ameno quase octogenário recanto.

Além da cordialidade e simpatia do dono, virtudes saudavelmente transferidas aos filhos, Antônio e Francisco, que, na condição de herdeiros, ainda hoje mantêm o famoso lugar como um ícone de prazeres gustativos na geografia da cidade. Muito de histórias passadas lá permanece no imaginário dos remanescentes de uma fiel clientela [....] Fora desses lugares que menciono e das cantinas de faculdade, davam-se ainda os encontros nas sessões dominicais do Clube de Cinema da Bahia, capitaneadas pelo misto de advogado trabalhista e crítico de cinema Walter da Silveira, em salas de espera dos cinemas, portas de livraria e “hall” de faculdades. A cidade tranqüila era assim intensa e ludicamente vivida, dia e noite, em transações que varavam as madrugadas.     

Volto ao começo, à história dos dois sonetos nascidos de uma remota tertúlia literária, no lusco-fusco de um bar, em anos de boemia e jornalismo romântico. Narro a excentricidade. Noite de primavera, dias depois do surgimento do Jornal da Bahia, na Rua Virgílio Damásio, nº 3, uma transversal da Rua Chile, numa das mesas de tampo de mármore do Bar Nogueira, então um dos mais concorridos da Rua da Ajuda, vizinho ao famoso Café das Meninas, amigos estão sentados, dois deles poetas e dois tarimbados jornalistas. Poetas, eu, um mero iniciante, na poesia e na imprensa, e Jair Gramacho, já um dos mais prestigiados membros da Geração Caderno da Bahia, na qual disputava píncaros com o poeta Wilson Rocha, ambos ícones locais do modernismo. Os dois jornalistas eram Ariovaldo Matos, romancista e autor de Corta Braço, ficção pioneira inspirada numa invasão de terras ocorrida no bairro da Liberdade, e o contista e cronista Flávio Costa, este subsecretário de Redação, que acabara de lançar Além das torres do Kremlin, relatos de viagem a Moscou, aquele experiente Chefe de

Reportagem do novo jornal, que antes exercera com afã militante o mesmo cargo em O Momento, aguerrido jornal que funcionou na Ladeira de São Bento (1945-1957), pertencente ao Partido Comunista do Brasil, o Partidão, fundado e mantido por Aristeu Nogueira e João Falcão, este depois fundador do próprio Jornal da Bahia.
Falava-se de literatura e política, como sempre, quando de repente, coisa de boêmios, surge um desafio, para saber-se quem dos dois poetas ali melhor escreveria um soneto. Não lembro o autor do repentino alvitre, tampouco o grau do efeito etílico, que, indulgente, o Ângelus da Igreja da Ajuda ali perto acalentava. Surpresos, os dois poetas se entreolharam, mediram o tamanho do repto, mas, feito o ajuste, bebericaram um pouco mais e se foram.

Dois dias após, tal como combinado, voltamos os quatro ao mesmo bar, cada um dos poetas empunhando a sua Excalibur verbal: eu, com o soneto intitulado "A cabra", de cândida inspiração rural, composto no clássico formato petrarquiano, com os catorze versos dispostos em dois quartetos e dois tercetos; ele, Jair Gramacho, com suntuosa joia lavrada no modelo shakespereano, de três quartetos integrados e um dístico, amplo de alusões panteístas e referências mitológicas, invocando lenda campestre em torno de Meleagro, herói de Calidônia; mas, tanto um quanto o outro, construídos em decassílabos de rimas emparelhadas ou entrelaçadas.

Cumprindo o ritual e com a devida entonação, cada autor leu o seu soneto. Na postura de juízes, depois de ouvi-los e cotejá-los, em silêncio, os dois jornalistas concluíram sorridentes que os dois poemas mereciam publicação mais ampla, na edição dominical do Jornal da Bahia. Dito e feito. Dias depois, com verniz gráfico de prestígio, ambos os sonetos ocupavam as duas colunas ao lado direito da página literária, editada sob a batuta do historiador e cronista Luís Henrique Dias Tavares, mas sem uma linha sequer alusiva ao embate travado no bar da Ajuda. Publicados, cada soneto seria alvo de corporativista acolhida: o meu, com recitação e elogios da presunçosa grei a que eu pertencia, enquanto o de Jair bem mais efusivamente louvado não apenas por nomes consagrados de sua geração.

Em 1960, os dois poemas seriam ainda publicados na revista Ângulos (Nº 16), então comandada por Noênio Spínola (diretor) e Antônio Guerra Lima (Guerrinha), de redator-chefe, com João Ubaldo Ribeiro diretor de Cultura do CARB, mas cada uma das criações poéticas doravante com sorte diversa: “A cabra” iria compor o conjunto do meu primeiro livro, Reverdor (Edições Macunaíma, 1965), enquanto o primoroso soneto de Jair Gramacho, ao que sei, permanece até hoje inédito em livro. São eles que agora abaixo reproduzo, vindo em primeiro lugar, por direito inalienável, o do meu saudoso e insigne êmulo.
 
 
SONETO OITAVO DE ATALANTA EM CALIDÔNIA
 
                                                                       JAIR GRAMACHO
Nesta tarde o terreiro está vazio.
Distante o laranjal se estende; a manga,
A serra, o azul depois; tênue miçanga
De açafrão tinge as fímbrias, o do estio
Único resto. Esta tristeza é mais
Que a da paisagem pobre e adormecente;
Talvez por não ter rosas, não ter gente,
E a solidão vagueie pelos currais.
Mas, certo é que nesta hora, ressurrecto,
O mito abandonado busca o luxo
Antigo de existir; dispõe espectros
Que em volta cirandeiam do repuxo...
         Ah! Mais que basta para o instante magro
         Galinhas ver – irmãs de Meleagro!
 
A CABRA
 
                        FLORISVALDO MATTOS
 
 
Talvez um lírio. Máquina de alvura
Sonora ao sopro neutro dos olvidos.
Perco-te. Cabra que és já me tortura
Guardar-te, olhos pascendo-me vencidos.
 
Máquina e jarro. Luar contraditório
Sobre lajedo o casco azul polindo,
Dominas suave clima em promontório;
Cabra: o capim ao sonho preferindo.
 
Sulca-me perdurando nos ouvidos,
Laborado em marfim – luz e presença
De reinos pastoris antes servidos –
 
Teu pelo, residência da ternura,
Onde fulguras na manhã suspensa:
Flor animal, sonora arquitetura.
 
 
Redação de conferência pronunciada em 18 de julho de 2012 por Florisvaldo Mattos, durante o seminário “Memórias Cruzadas da Cidade do Salvador”, promovido pela Fundação Pedro Calmon, sendo moderador seu presidente, o historiador Ubiratan Castro, no auditório da Biblioteca Pública do Estado da Bahia, nos Barris, na parte circunscrita ao tema A Cidade da Boemia, tendo como foco “a boemia literária e o entrelaçamento da vida intelectual, mundana e universitária, que incubaram intensamente gerações de intelectuais transformadores e movimentos de vanguarda, na Salvador dos anos 50”. 
Florisvaldo Mattos. Natural de Uruçuca, no sul do estado da Bahia (Brasil), é poeta e jornalista, professor aposentado da Universidade Federal da Bahia; exerceu cargos em vários jornais, entre os quais os de editor-chefe (“Diário de Notícias” e “A Tarde”, ambos de Salvador). Foi correspondente e chefe de sucursal na Bahia do “Jornal do Brasil” (RJ). Por mais de uma década, editou o suplemento semanal “A Tarde Cultural”, premiado em 1995 pela Associação Paulista de Críticos de Arte (APCA), como o melhor do Brasil no quesito de Divulgação Cultural. Desde 1995, ocupa a Cadeira nº 31, da Academia de Letras da Bahia. Entre 1987-89 ocupou a presidência da Fundação Cultural do Estado (Funceb), Obras publicadas: Reverdor, 1965; Fábula Civil, 1975; A Caligrafia do Soluço & Poesia Anterior, 1996; Mares Anoitecidos, 2000; Galope Amarelo e Outros Poemas, 2001; Poesia Reunida e Inéditos,2011; Sonetos elementais – Uma antologia, 2012 (todos de poesia).Estação de Prosa & Diversos, 1997); A Comunicação Social na Revolução dos Alfaiates, 1998 e Travessia de oásis - A sensualidade na poesia de Sosígenes Costa, em 2004 (os últimos de ensaio).