SAUDADE
JULIO MONTEIRO MARTINS
Il laboratorio di narrativa si avvicinava al termine. Era quasi la fine di maggio, ormai. Il sole potente fuori dalla finestra avvisava che non era più il caso di rimanere chiusi tra le solite quattro mura. Liane, scrittrice e migrante di origine brasiliana da molti anni in Italia, stava presentando ai suoi allievi gli ultimi punti del programma, le alternative non convenzionali alla tecniche narrative tradizionali, forse la parte del corso che più le piaceva, con le sue sfide, le sue insidie estetiche, i suoi risultati sempre spiazzanti:
– Narrativa in araldica o narrativa in abisso, così sono chiamate quelle storie che contengono altre storie e che a loro volta ne contengono altre ancora, un po' come le matrioske. È una strategia narrativa utilizzata in passato soprattutto da scrittori sudamericani sofisticati come Borges, Guimarães Rosa, Machado de Assis o Julio Cortázar, che finì per influenzare autori italiani come Calvino, il quale in seguito ne fece uso con una certa frequenza. E qui bisogna aggiungere che è vero anche il contrario, che scrittori sudamericani sono stati influenzati dalla letteratura italiana del periodo come, per esempio, Márquez, il cui “realismo fantastico” è stato molto forgiato da Zavattini durante il suo lungo soggiorno a Roma. Era un periodo, quello degli anni Cinquanta del Novecento, di intensi scambi culturali. Márquez collaborava anche con Fellini e con De Sica, sembra che sia stato uno degli sceneggiatori di “Miracolo a Milano”. Antonioni ha girato “Blow Up”, che è un racconto di Cortázar, presente all'interno della raccolta “Le bave del diavolo”. Pensiamo a un film italiano come “Cronaca di una morte annunciata”, di Francesco Rosi, tratto dalla novella di Márquez, o “Il postino di Neruda”, tratto dal romanzo del cileno Skármeta. I casi sono tantissimi. Borges diceva che il modello delle storie in abisso l'aveva appreso dal “Mille e una notte”. Ma sappiamo che Borges scriveva pezzi di finzione borgeana anche quando rispondeva alle domande dei suoi intervistatori, quindi queste sue affermazioni vanno prese con le pinze.
– So che addirittura inventava delle note bibliografiche citando libri mai esistiti, e le metteva in fondo alle pagine dei suoi racconti.
– Eh sì. Borges a volte sembra un illusionista, che gira e rigira la narrativa come vuole, confonde il lettore con i suoi giochi di specchi, i suoi labirinti, le sue tigri, le sue farfalle. Ma è sempre un autore molto filosofico e raffinato. Ogni suo racconto è una lunga metafora sull'azione del caso, sul tempo o sulla fatalità, una breve lezione di filosofia raccontata attraverso le immagini. Mi piace molto. Per questo volevo chiedervi di esercitarvi per l'incontro della prossima settimana scrivendo un testo in cui il personaggio si ritrova ad affrontare una precisa situazione che fa scaturire in lui un'onda di nostalgia, di rimpianto del passato, e che poi leggeremo insieme. Ho voluto io stessa scrivere qualcosa sull'argomento, come spunto per voi, una storia che gira intorno alla saudade del protagonista Josué, un signore settantenne, brasiliano come me. Ve lo leggo.
 
Josué Mattos era febbricitante quella mattina. Finalmente avrebbe avuto inizio la sua agognata vacanza dal genere umano. Senza i familiari attorno, senza vicini, colleghi di lavoro, amici o conoscenti, che avrebbero trovato il suo cellulare non raggiungibile e la posta elettronica sempre ancora non visionata. Si sentiva come un San Girolamo nel deserto, che scrive in fondo a una grotta, con un leone silenzioso e vigile accucciato al suo fianco. Si rifiutò addirittura di guardare fuori dalla finestra per controllare se fosse bel tempo o se in cielo si vedessero nuvole scure. Un volontario atto di disprezzo, di vendetta, si può dire, contro il mondo esterno, contro il tempo presente, contro gli impegni e le tentazioni, contro tutto quello che ogni giorno lo strappava furiosamente da sé stesso e lo trasformava in un burattino di pezza invertebrato.
E se il presente lo infastidiva, il “futuro” non gli interessava affatto. Il futuro, per essere interessante, avrebbe richiesto una dose di immaginazione molto più alta e vigorosa di quella che da qualche anno a questa parte Josué era in grado di mobilitare. E con la sua immaginazione affievolita, col desiderio tiepido, soffriva il “futuro”, soffriva il sesso, soffriva il senso dell'umorismo e soffrivano anche le storie.
“Chi vive troppo finisce per seppellire i propri figli”, diceva mia nonna, forse per scaramanzia, augurandosi una morte che sapevamo bene in fondo non volesse. Finì per seppellire la propria figlia, mia madre, e visse ancora per un'altra decina di anni, prendendosi cura dei nipotini.
Faccio mio questo augurio? No, non mi sento pronto per morire. Fino alla senilità uno ha paura della morte, giustamente. Solo più tardi, anzianissimo, lo spirito si irrobustisce e la morte non spaventa più. E io certo non sono anzianissimo. Ho vissuto troppo ormai, forse, ma non così troppo. E poi questa cosa di “è triste sopravvivere a sé stesso” mi sembra una sciocchezza. Nessuno “sopravvive a sé stesso”. Se è vivo, è vivo. Ama ed è amato da qualcuno. Odia ed è detestato da qualcun altro.

E se non è lucido come prima, se ha perso la memoria, se non riconosce più nessuno, bé, ci sono i flussi e i riflussi. Tutto ciò che sale prima o poi precipita. Il vapore, i razzi, la memoria. Se troviamo così stimolante il bambino che impara, perché ci ripugna tanto il vecchio che disimpara? Non credete che svuotare il cervello finalmente da tutta quella zavorra accumulata può portare a una gioiosa sensazione di ampiezza, di spazi liberi dentro i quali spostarsi senza ingombri? Mentre tutti si occupano del cervello mezzo pieno, forse il maggior interessato, lo smemorato, se la spassa nel cervello mezzo vuoto.

La casetta sulla spiaggia di San Vincenzo era stata prenotata per una settimana tre mesi prima, ma all'ultimo momento Josué decise di non andarci. Aveva l'influenza e una volta che si ritrovava costretto a restare a letto preferiva farlo a casa sua piuttosto che in un luogo sconosciuto. Insistette però affinché il resto della famiglia non perdesse la prenotazione e godesse delle vacanze estive al mare, mentre lui si sarebbe goduto un'intera settimana di solitudine, di intimità con sé stesso. Ora poteva mettersi a giocare con le tre sorelle, una alla volta: la memoria, la curiosità, l’immaginazione che gli restava.
 
 Da molto Josué aspettava una giornata come quella per aprire lo scatolone con le vecchie foto, con i ricordi e gli scritti di altri tempi. Portò su dal garage tre scatole di cartone colorate, le mise sul tavolo da pranzo una accanto all'altra e aprì i loro coperchi fissati col nastro adesivo. Si sentiva in procinto di iniziare un viaggio nel tempo, era eccitato e un po' timoroso, a causa dei fantasmi delle emozioni che sapeva si sarebbero finalmente liberati nella stanza.
Guardò dentro la scatola delle foto. Immagini in seppia e in bianco e nero, qualcuna di quasi un secolo fa, suo nonno con i calzoncini corti e una camicia col collo da marinaio; doveva avere circa tredici anni allora. Lo zio Wilson, bello, fronte alta e baffetti neri. Era il 1916. Aveva diciannove anni quando partì da Cataguazes per avventurarsi nel baccano della capitale. Decise di fare come gli altri dandy che vedeva per le strade di Rio, i quali, senza pensarci su, salivano con un balzo felino sui tram in movimento. Ma lo zio Wilson scivolò sotto il tram e finì lì la sua corsa. Si concluse così la sua vita prima ancora di compiere vent'anni. Quello era un uomo che non avrebbe visto morire i propri figli.

Poi Josué ritrovò una foto che sempre gli procurava una fitta di gioia acuta. Un'immagine di sua madre giovanissima, quattordici o quindici anni a mala pena, appoggiata allo stipite della porta della modesta casa di Barbacena, con un sorriso splendente che quasi lo accecava e lo costringeva a socchiudere un poco le palpebre. Feci i conti. Stava per finire la seconda guerra mondiale e si ballava il cha-cha-cha, il rock-and-roll era ancora in gestazione. Trovò una piccola foto un po'  sfuocata di lui da bambino, a cinque anni forse, vestito da cow-boy, fronte corrugata, sguardo minaccioso, più Lee Marvin che John Wayne. Puntava la pistola verso la camera, ossia verso di me, il signore canuto che l'osserva divertito dall'ancora lontanissimo Ventunesimo secolo. Non c'era più niente in quel signore che il cow-boy di Cataguazes avrebbe potuto trovare familiare, era più alieno del grande capo dei sioux. O magari avrebbe scorso qualcosa di conosciuto in quello sguardo, un velo di incertezza, un'arcana perplessità.
 
 Rimise la foto a posto, guardò le vecchie tessere di plastica, qualcuna brasiliana, altre già italiane, del cineclub, dell'Arci, della Standa, dello Western Union. Aprì una cartella, di plastica grigia indurita dal tempo, friabile, e trovò alcuni manoscritti, bozze di lettere poi ricopiate a mano in bella copia, cimeli di un tempo anteriore al computer. Lettere a due amici già morti, a una ex-fidanzata lasciata indietro dall'emigrazione, “Querida Norma”, a un'amante anche lei tagliata brutalmente fuori dalla sua vita quando decise di sorvolare l'Atlantico per l'ultima volta, “Querida Quitéria”. Su di lei trovò anche alcune righe scritte a un amico libraio di Juiz de Fora, in cui diceva che aveva avuto un grande amore, tanti anni prima, che una volta finito, abbandonato al suo destino, non aveva più celebrato in alcun modo e faceva il possibile per non rievocarlo mai, per cancellarlo dalla memoria, per esorcizzare la possibilità della saudade, ancora troppo dolente, scottante, per essere goduta. “Che io ti guardi, Quitéria, mentre svanisco”, pensò Josué, e sorrise.
In fondo alla cartella, sotto le lettere, trovò un testo che apparentemente era stato scritto su richiesta di un giornalista curioso di conoscere alcuni degli usi e costumi del Brasile, ma che in verità egli aveva scritto più per sé stesso, per chiarire un concetto sfuocato seppur familiare, per aiutare a capire le lettere, le fotografie, i ricordi rimossi e quelli sopravvissuti, per assecondare la difficile digestione del già vissuto da parte del pensiero, per calmare la nausea e la vertigine del “mal di tempo” che tanto assomiglia a un mal di mare:
 
 
SULLA SAUDADE
 
La parola saudade, che è diventata un po' il marchio d'identità del mondo lusofono, il sentimento prevalente e onnipresente in quelle vastissime lande, è oggi divenuta parente (o almeno ha una vecchia amicizia semantica) con i sostantivi saúde (salute) e saudação (saluto). Questa tristezza addolcita tutta nostra - desiderata, poiché dolce, ma non per questo meno triste - intrattiene senz'altro colloqui segreti con lo stato di salute fisica del saudoso. Già un grande poeta brasiliano, Vinícius de Moraes, si riferiva alla malattia impronunciabile e più temuta, il cancro – in Italia chiamato eufemisticamente “tumore” e tra i medici “neoplasia” (che vuol dire letteralmente “forma nova”; sarà mica un'avanguardia!?) - come “quella tristezza delle cellule”. Non era lontano dal dire “quella saudade delle cellule”, che non potendo retrocedere nel tempo migrano, s'innestano altrove e poi si moltiplicano disordinatamente.
Il programma di una radio popolare nella Cataguazes della mia gioventù si chiamava Saudade não tem idade! (la saudade non ha età). Permetteva ai giovani degli anni '70 di avere il magone e la pelle d'oca riascoltando le canzoni degli anni '60, come se fossero scomparse in tempi ormai lontani: Stand by me, Il mondo, A Whiter Shade of Pale, Sapore di sale, Smoke gets in your eyes, The House of the Rising Sun, Hey Jude e tutta la bossa-nova, con la già allora defunta spensieratezza del periodo Juscelino Kubitschek, gli anni d'oro del Brasile e i suoi barquinhos e beijinhos sem ter fim (barchette e bacini senza fine). E il grande successo di João Gilberto, appunto, Chega de saudade (Basta saudade!).
Sono lontanissimi ormai gli anni '60 e anche i '70, e da allora il passato è cresciuto come narrazione in un modo talmente smisurato che da racconto è divenuto romanzo ed è ormai una tetralogia.
Uno guarda avanti e cosa vede? Poco tempo, una manciata di domeniche, giorni contati; ma non solo, giorni anche un po' bruttini, un po' grigiastri, dominati da personaggi insipidi e antipatici, dalla banalità urlata e da macerie mascherate da futuro. Uno guarda indietro invece e vede la Grande Storia e dentro la propria storia, oramai poco meno grande dell'altra.
Saudação a questo oceano immenso, grandioso.
Osservato dall'oblò della squallida scialuppa, quale invito ci fa? Di saltare dalla barca e tuffarci nella saudade delle sue acque. Se il passato è casa e patria - ci mormora la saudade all'orecchio - , se ci si sta così bene, perché ostinarsi ad abitare in un bizzarro albergo a ore, pieno di ospiti equivoci e poi così lontano da tutto?
 
Josué chiuse lo scatolone mentre quell'ultima frase risuonava come una campana a morto: “Così lontano da tutto”. “Infinitamente distante da me stesso”, pensò. Tutto ciò che era stato finora avrebbe potuto riassumersi in una foto ingiallita, sempre più sbiadita, fino a che ogni traccia di umanità non si fosse eclissata dai segni del tempo. Sapeva di non poter darsi al lusso della saudade quel pomeriggio, come si era augurato, o in fondo aveva temuto. Anche lui, come lo sfortunato zio Wilson, era scivolato sotto un tram, un gigantesco tram chiamato patria, le cui ruote d'acciaio l'avevano tagliato in due: una metà era rimasta lì per sempre, immobile tra i binari, in decomposizione, mentre l'altra era stata portata molto lontano, nella sponda meno gelida della vecchia Europa, dove rimaneva tuttora, evitando gli specchi per continuare a credersi un uomo intero.

Rabbrividì. Poi, in preda a uno scatto istintivo, afferrò il cellulare sulla credenza e chiamò la moglie. Era in ansia, come se non avesse potuto farlo mai più, inghiottito dalle sabbie mobili di quel passato pericoloso. Il cellulare a cui si era aggrappato era la corda della sua salvezza.
Lei rispose subito, sorpresa. Conoscendolo avrebbe potuto scommettere che non l'avrebbe chiamata così presto. La sorpresa più grande però fu quella di sentirlo dire che era guarito dal raffreddore e veniva a trovarli in pullman a San Vincenzo la mattina dopo, che l'avrebbe richiamata per comunicarle l'orario di arrivo. “Sei sicuro di voler venire, Josué?”. “Sì, certo. Ora sto benone. Domattina passo in libreria e prendo due o tre libri nuovi da leggere in spiaggia. Ascoltando Vivaldi starò da Dio”.
Dovrebbero inventare un modo per cremare anche i ricordi e spargere le loro ceneri al vento, pensò Josué, mentre si metteva le scarpe per uscire a fare una camminata e magari comprare uno zainetto e una valigia nuova.
 
 – Liane, posso farti una domanda? È vero o è stata una mia impressione che quel testo “Sulla saudade” è stato scritto molto prima del resto del racconto? Perché ha uno spirito, ma anche un linguaggio, molto diversi del resto.
– Sì, è vero. Sono contenta che tu l'abbia notato. Quella parte è stata scritta un paio di anni fa, e proprio come ha detto il personaggio di Josué, su richiesta di una rivista. Ma attenzione, volevo che lo stile fosse ben diverso dal resto, per sottolineare i cambiamenti avvenuti nel personaggio. E nel racconto è sottinteso che quel testo è antico, scritto magari dieci o vent'anni prima. Quindi il cambiamento dev'essere evidente, anche se in tutte e due le parti la malinconia è presente, perché è essenziale per il personaggio, gli appartiene. Ma nel primo testo la malinconia è più... energetica, più attiva e più spericolata.
– La mia impressione invece è che i sentimenti evidenziati nei due testi siano proprio contraddittori. Il vecchio articolo dice che è possibile e forse desiderabile sentire la saudade, che è una cosa positiva, piacevole, mentre nel racconto delle vacanze solitarie e frustrate di Josué sembra quasi che lui soffra a causa di tutti quei ricordi. Che soffra e basta. Li vuole addirittura cremare.
– L'hai sentito così? Bé, forse hai ragione. Il rapporto col proprio passato è sempre ambiguo. Io stessa l'ho sempre vissuto così. La saudade è dolce-amara, anche quando è voluta, cercata, e quando il piacere della rievocazione prevale sui rimpianti e sui dolori.
– Il racconto l'hai scritto in terza persona, con il narratore onnisciente, anche se la narrazione è inframezzata da pensieri e da brevi monologhi interiori, ai quali si aggiunge pure il dialogo conclusivo. Pensavo se, dato che l'argomento è tutto interiore e il racconto descrive le sfumature di un sentimento, non sarebbe stato meglio scriverlo in prima persona, come un lungo monologo interiore.
 – Ma, vedi, qui si tratta di una falsa terza persona. Le descrizioni ambientali esterne, le azioni fisiche compiute dal personaggio, servono soltanto per introdurre quei sentimenti, quelle sensazioni diffuse, cangianti, e certi suoi ragionamenti. Diciamo che il racconto è un monologo interiore che ha bisogno di una cornice fattuale, di uno scenario, che faccia scaturire il flusso delle emozioni. Il monologo interiore spesso si giustifica e si rinforza quando presentato a partire da una situazione reale, visiva. Questa falsa terza persona è uno dei miei punti di vista favoriti, spesso mi ci trovo bene. Ma, attenzione, non è facile fare i passaggi dalle descrizioni dello scenario al flusso di coscienza dei personaggi senza che sembri una forzatura, un salto artificioso. Il segreto forse è coinvolgere il lettore tramite la descrizione delle emozioni, in modo tale che si identifichi psicologicamente col personaggio. Così quando si passa dall'esterno all'interno il lettore ha quasi l'impressione che quelle emozioni siano sue. E siccome noi stessi, nella realtà, a partire dall'osservazione diamo inizio senza accorgercene ai nostri soliloqui, questa strategia narrativa sembrerà naturale dentro la narrazione.
– Infatti, nel racconto non ho nemmeno avvertito questi passaggi…
– Facciamo così. Mancano solo due incontri al termine del corso, ma io vorrei ancora approfondire l'uso di questa tecnica. Per il prossimo incontro potreste fare anche uno o più monologhi interiori usando questo falso narratore assente, oltre all'esercizio che vi ho già assegnato. Poi, domenica prossima, li leggiamo tutti insieme, va bene? Sono già le sette e un quarto. Chiudiamo qui per oggi. Buona settimana e, mi raccomando, scrivete, ok? Sul serio, eh, ragazzi.
 
L'estate era alle porte, però. E Liane, che degli inviti del sole se ne intendeva, sapeva benissimo che in pochi avrebbero portato gli esercizi fatti. Le mattine luminose, i pomeriggi rossi, stordiscono dolcemente le meningi, il cervello gira a vuoto, sensuale.
Ma dai, avrebbero fatto bene a non scrivere più niente fino all'autunno. Sapeva che vivere è essenziale mentre scrivere è accessorio, e a volte anche bizzarro, e che solo il mito dello “scrivere”, con tutto ciò che rappresenta di ridicolo e di consolatorio, può farlo sembrare una priorità.
Si affacciò al terrazzino e vide giù il gruppetto che camminava verso il cancello mentre chiacchierava vivacemente. Si erano fermati per qualche secondo, forse per fissare un appuntamento tra di loro, e poi erano spariti dietro la siepe di camelie.
Liane sapeva che si sarebbe ricordata molte volte di quei suoi allievi-amici quando sarebbe finito il corso. Di loro e delle loro storie. E allora si chiese se anche loro avrebbero potuto concedersi quel lusso dell'anima, quella nostalgia saporita che da sempre conosceva con il nome di saudade.
 

Julio Monteiro Martins è nato a Niterói (Brasile) nel 1955. È stato professore di scrittura creativa al Goddard College (Vermont) dal 1979 al 1980, all’Oficina Literária Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro) dal 1982 al 1989, all’Istituto Camões di Lisbona nel 1994 e alla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro nel 1995. Ha ricevuto il titolo di "Honorary Fellow in Writing" dall’Università di Iowa (International Writing Program) nel 1979. Tra i fondatori del partito verde brasiliano e del movimento ambientalista "Os Verdes", è stato avvocato dei diritti umani a Rio de Janeiro, responsabile dell’incolumità dei "meninos de rua" chiamati a testimoniare in tribunale sulle stragi dei bambini abbandonati. Attualmente insegna Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria all’Università Degli Studi di Pisa e dirige il Laboratorio di Narrativa, che è parte del Master della Scuola Sagarana, a Pistoia. Nel suo paese d’origine ha pubblicato, a partire dal 1977, raccolte di racconti, romanzi e saggi: "Torpalium", "Sabe quem dançou?" (Sai chi hanno beccato stavolta?), "Artérias e becos" (Arterie e vicoli ciechi), "Bárbara", A oeste de nada" (A ovest di niente), "As forças desarmadas" (Le forze disarmate), "O livro das Diretas" (Il libro della democrazia ritrovata), "Muamba" e "O espaço imaginário" (Lo spazio immaginario). In Italia ha pubblicato "Il percorso dell’idea" (1998), "Racconti italiani" (2000), "La passione del vuoto" (2003 ), "madrelingua" (2005) e "L'amore scritto" (2007). Con Antonio Tabucchi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Erri de Luca e Gianni Vattimo ha pubblicato inoltre il volume "Non siamo in vendita – voci contro il regime" (2001). È stato anche autore di opere teatrali ("L’isteria del marmo", "Per motivi di forza maggiore", "Aula magna", "Hitler e Chaplin") e i suoi scritti hanno ispirato opere cinematografiche, come "Garganta" (Gola) del regista Dodô Brandão e "Referência" (Referenza), del regista Ricardo Bravo.