IL RACCONTO: IL SORRISO DELLA STELLA testo in italiano e in portoghese - IN ESCLUSIVA -
Aleilton Fonseca
"Opô Alafia" foto de Oscar Dourado. Série "Opô"
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

Era morta mia sorella. Lì, tra i gelsomini e e le rose, mia madre piangeva, seduta alla testata del letto. Era una notte inquieta questa della vigilia. Tra la veglia e i pianti per Stellina, di quando in quando arrivavano le  benedizioni. Il funerale sarebbe avvenuto il giorno dopo, a metà di una mattinata di sole.

Stella era lì, morta, e aveva appena tredici anni, ma avvertivo dentro di me questa morte. Era come se anch’io mi sentissi morto, senza avere avuto il tempo di redimermi e di poter amare mia sorella, come,  solo ora, avevo capito di essere capace. Se lei non fosse morta io sarei andato a giocare con lei, e non le avrei mai più fatto uno scherzo o un dispetto. Al massimo l’avrei chiamata “sua doida” (pazzarella).

Proprio ora che cominciavo a comprendere il suo linguaggio, proprio ora. Da quando era stata ricoverata in ospedale, io avevo iniziato a capire i suoi dialoghi sommessi con le pietre, con i pezzi di legno, con le foglie al vento. Il silenzio della sua assenza nel cortile si rivelò dentro di me con il tono di una strana nostalgia. Ma non sospettavo nulla di ciò che sarebbe successo nella mia anima.

Tutto era avvenuto fuori dell'ordine del tempo. Lei era nata prima, tre anni prima di me. Ma ora la distanza si accorciava, proprio ora che affogavo in un deserto di lagrime.
Era la prima volta che dialogavo con mia sorella:
-   Stella, svegliati, andiamo a parlare con le pietre – le sussurrai all' orecchio perchè nessuno mi ascoltasse.

La madrina venne a consolarmi, dovevo avere pazienza, era stata la volontà di Dio, era stata la cosa migliore per lei, così malatina, poverina. Provai rabbia per la madrina, in quella mia intima sofferenza. Continuai la conversazione, finchè mi presero per un braccio, poichè mia madre si stava struggendo dal pianto.
-   Stella, ascoltami. Ora andiamo a giocare fuori ad acchiapparella.

Il suo corpo sudava, dormiva senza risuonare. Un panno avvolgeva i suoi capelli castani e scendeva per sostenere il mento – era, forse, per contenere il sorriso? – Mia madre asciugava il sudore della morta con lo stesso fazzoletto in cui depositava le proprie lagrime. Che il tempo tornasse, mio Dio! Io imploravo solo un unico miracolo.

Le immagini si susseguivano nella mia memoria, io l’ascoltavo come se fosse ora:
-    Andiamo a giocare, Dindinho.
-    Non mi chiamare più Dindinho! Il mio nome è Pietro – rispondevo aspramente, senza neppure guardare e uscivo.

Pensavo di odiare il fatto di avere una sorella così. Lei insisteva, amorosa, tanto da obbligarmi.
-   No, non lo sa nessuno, ma è Dindinho il tuo bel nome e io ti chiamo così - diceva come se io stessi ancora lì.

Non mi andava di raccontare che avevo questa sorella. Gli amici mi prendevano in giro. Varie volte litigai perchè mi chiamavano Dindinho, il fratello della pazzarella. Dindinho, io stesso no! Mia madre già aveva preso l’abitudine di chiamarmi così per far piacere alla figlia. Ma io non l'accettai e mi ribellai, fuggii da casa per un giorno intero. Dopo mia madre mi diede le botte, ma non mi chiamò mai più con quel nome.

Perchè lei esisteva? Non guardavo mai Stella. Indirizzavo il mio sguardo verso altro, abbassavo gli occhi per non imbattermi in lei. La consideravo una sfortuna nella mia vita. Volevo che morisse.
Lei mi sorprendeva, a volte, prima che mi mostrassi irritato, cosa che accadeva quasi sempre:
-   Quando morirai, Dindinho, di che colore vorrai le tue ali in cielo?

Una cosa senza senso, tanto che io neppure rispondevo. Facevo solo una faccia da infastidito, muovevo la testa in modo negativo. Lei mi chiudeva gli occhi, inventava scherzi sempre più strani per attirare la mia attenzione. Invece, tutto questo mi allontanava sempre più. Meglio che i miei amici sapessero che io non avevo una sorella, perchè nominarla già diventava motivo di conflitto. Rimasi male con alcuni dei migliori amici per molto tempo, proprio per questo.

Dinnanzi alla mia avversione, Stella cercava modi per attirare la mia attenzione, senza avere il minimo successo. Un giorno, ammettendo che io la stessi notando, lei immaginò una proposta delle più inopportune. All’inizio della sera lei, dopo tanto silenzio, mi propose con la più grande sicurezza del mondo:
-    Ti dò una cosa per sempre, quella stella grande sarà solo tua per la vita intera e anche dopo, Dindinho.
-    Ma guarda, e chi può avere una stella, pazzarella? - dissi distrattamente.
-    Tu puoi, perchè è mia e io la regalo solo a te, Dindinho. Ma solo se tu mi sorridi, ogni giorno, una volta...solo una...vuoi?

Non ho mai saputo sorridere a te, Stella, perdonami. Quando iniziavo a concentrarmi in maniera profonda, quando stava germogliando un sorriso dal fondo della mia anima – e sarebbe stato tuo questo sorriso! – tu già non eri più qui. Ancora oggi arrivano solo le lagrime che non ho mai avuto prima, quando tu vivevi nel tuo mondo di immagini che io ho percepito solo dopo. Io ero proprio un Pietro, con il cuore che risuona  nella sua durezza, ma tu mi hai ammorbidito. Tu, quando io avevo quasi quattro anni, mi hai portato in braccio. Io ero il tuo bambino, come mi raccontò mamma, dopo, ma era troppo tardi. Stella...avrebbe potuto essere tutto così diverso!

La notte avanzava, giungevano ore che io non conoscevo, i miei occhi erano già stanchi. Mi sporgevo verso la morta, il sonno mi spingeva verso lei, nei movimenti bruschi di chi si appisola. Mia madre mi mandò a dormire e io, dopo aver rifiutato, alla fine uscii a testa bassa dalla sala: la solitudine mi completava. Non mi diressi verso la mia camera, ma in quella che stava accanto. E guardai gli angoli di quel luogo, tutto così pulito e in un ordine che io non conoscevo.

Lì vidi i contorni di questo vuoto che fino ad oggi sento dentro me. Feci mezzo giro e camminai verso il  letto, ma non riuscii a mettermi comodo. Il sonno mi stringeva gli occhi, una agonia nel petto mi torturava in quella vigilia. Volli tornare nella  sala, ma nostra madre mi supplicò di non tornare e lo fece con uno sguardo tenero, fu così prezioso quello sguardo... Tornai, ma non nella mia camera. E mi sdraiai nel letto di Stella, lasciando nella lavanda del cuscino il sale dei miei occhi.

Mi ritrovai a vivere il meglio, oltre la nostra realtà. Stella mi sorrideva, correva da me e io non avevo fretta di prenderla, era forse acchiapparella. Il nostro cortile si allargava, il cammino di piante, legna e pietre si trasformava in nuvole senza che si vedesse la fine. Io sapevo tutto, ma non mi importava e il sorriso di Stella mi riempiva e mi rendeva leggero tanto che volavamo. Volevo raggiungere mia sorella, ma non potevo chiederle di fermarsi.

Stella aveva un volo fermo e sicuro, mentre io mi sembrava che volassi solo nel vuoto.  Ma io la volevo, la cercavo per un abbraccio che mi mancava, un tocco che mi trasmettesse i suoi modi di sorridere.
Volevo parlare con le nuvole, e le pietre là in basso già mi sorridevano, le foglie mi salutavano. Stella si stava allontanando e io mi sorpresi nella stanchezza di questo volo mentre le nuvole perdevano la loro leggerezza.

Stella! Stellina, dammi la mano! Portami con te! Ma il suo sorriso già mi abbandonava. Se ne andò diventando del colore della nuvola e pian piano mi ritrovai senza occhi per tenerla. Ed era tardi, molto tardi: ebbi un soprassalto e quello che vedevo ora erano le tegole della nostra stanza.

La mattina si era accesa come le candele, con una velocità che faceva male. Vidi che mia madre non aveva dormito, aveva vegliato, in questa notte, tutta una vita al lato della figlia. Era uno sguardo stanco, quello che aveva verso di me, con un disincanto muto, guardava il nostro vuoto. Mi circondai di lei, le sue braccia mi toccarono. E mi accarezzava i capelli con la mano destra, con l'altra accarezzava i capelli di Stella. Indimenticabile quel gesto di nostra madre, in tutta la nostra vita, attraverso il suo corpo passava la nostra ultima sintonia.

Stava arrivando gente, si avvicinava l'ora del funerale. La madrina spense i quattro mozziconi di candela accesi attorno a Stella. Iniziarono a distribuire i rami di fiori per il corteo funebre. Io guardavo i bambini e le bambine che si spingevano l'un l'altro per vedere la morta. Tra loro c'erano quelli che l'avevano sempre derisa. Alcuni mi parevano tristi, altri stavano appena vivendo un'avventura. Io mi sentivo completamente lontano da tutti.

Avrebbero chiuso la bara. Mia madre pianse ancora lagrime e chiese a Dio il perchè della morte della figlia. E perfino la madrina, per la prima volta, gettò le reti del suo pianto. Io rimasi in silenzio, presi un ramo di rose che stava vicino al volto di Stella. Non mi sembrò opportuno baciare il suo volto adesso, visto che non lo avevo mai fatto quando era in vita. Così baciai i fiori e li riposi nella sua bara. Era ora, fra poco sarebbe iniziato il funerale. Quando mi mandarono a guardare mia sorella per l'ultima volta, non piansi, perchè mi sembrò che lei mi sorridesse con un lontano sorriso, solo perchè io lo sentissi.

Allora capii che lei sarebbe divenuta come le nuvole. Volevo seguirla, ma non mi lasciarono andare. E così mi portarono via Stella. Il corteo funebre passò la prima curva della nostra via. I miei occhi continuarono a cercare, fino ad oggi sono fermi a quella curva senza nome. La madrina spazzò la casa, dal fondo fino alla porta d'entrata, unendo le foglie e i resti di fiori e i mozziconi di candele. Lasciò il mucchietto al piedi del jambo che Stella chiamava "il mio secondo amore". Era dove mia sorella era solita stare all'ombra, abbellendosi con i fiori rossi del jambo. Lì io sciolsi le mie ultime lagrime.

Sorella mia, ancora oggi contemplo la tua stella e ho una voglia enorme che sia mia. Da lì vedo proiettarsi la tua immagine, in un sorriso lontano che non mi lascia disorientato. Era questa la luce che tu mi offrivi, solo per un sorriso, che già era tuo senza che io lo sapessi. Quante stelle nel cielo -  e io non ne possiedo nemmeno una!

Il tempo mi diede questi capelli bianchi, ma la mia memoria conserva i tratti di Stella, con le sue allegrie senza motivo. Nel nostro cortile, le pietre, i pezzi di legno, il fogliame al vento cercano di conversare con me, ma io continuo a stare muto. E intanto, adesso lo sento: io sono Dindinho.
 
In: FONSECA, Aleilton. O desterro dos mortos. Rio de Janeiro: Relume Dumará,
2001, p. 23-28.

Traduzione in italiano di Antonella Rita Roscilli

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Aleilton Fonseca è nato a Itamirim, oggi Firmino Alves, nello stato brasiliano di Bahia il 21 luglio 1959 e rsiede a Salvador. Dottore in Lettere (USP) è professore titolare della UEFS. Scrive romanzi, poesie e saggi. Debuttò nel 1981 con Movimento de Sondagem (poesie) e ha pubblicato finora 11 libri. Ha partecipato ad antologie e collezioni di racconti e di poesia. Nel 2006 ja pubblicato "As formas do barro & outros poemas (Salvador: EPP-Publicações e Publicidade) e il romanzo Nhô Guimarães (Rio de Janeiro: Bertrand Brasil.
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TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

 
Estava morta a minha irmã, ali entre jasmins e rosas, minha mãe à cabeceira chorava. Era uma noite inquieta, essa do velório em vigília e prantos por Estelinha, de quando em quando se rezavam benditos. O enterro iria seguir no outro dia, no meio da manhã de sol.

Estela estava morta, aos treze anos. E eu sentia dentro de mim esta morte. Era um pouco também eu morto, sem tempo de me redimir e poder amar minha irmã, como — só agora! — eu sabia ser capaz. Ela não morresse, eu iria brincar com ela, nunca mais uma zombaria, nem desprezo, nunquíssimo a chamaria de “sua doida”.

Pois agora eu começava a compreender sua linguagem, logo agora, desde que ela se fora para o hospital, eu comecei a entender seus diálogos compridos com as pedras, com os tocos de pau, com as folhagens ao vento. O silêncio de sua ausência no quintal se mostrou dentro de mim em tons de uma saudade estranha. Mas ainda ali, eu não suspeitava do que me vinha na alma.

Tudo fora a ordem do tempo. Ela nascera primeiro, três anos antes de mim. Agora a diferença encurtava, mas justo quando eu me afogava nesse deserto de lágrimas. Pela primeira vez, eu dialogava com a minha irmã:
— Estela, acorde, vamos conversar com as pedras — sussurrei  no seu ouvido, ninguém me escutasse.

A madrinha veio me consolar, eu tivesse paciência, fora a vontade de Deus, o melhor para ela, tão doentinha, coitada. Tive raiva de madrinha, no meu mais íntimo sofrimento. Continuei a conversa, até que me puxaram pelo braço, pois minha mãe redobrava-se no pranto.
 — Estela, acredite em mim agora. Vamos correr picula.

O corpo dela suava, dormindo sem ressonar. Um pano envolvia seus cabelos castanhos e descia para sustentar seu queixo, —  talvez para conter o sorriso? — Minha mãe enxugava o suor da morta com o mesmo lenço em que depositava as próprias lágrimas. O tempo voltasse, meu Deus! Eu só implorava um único milagre. As imagens desfilavam na minha memória, eu a escutava como se fosse agora:
— Vamos brincar, Dindinho.
— Não me chame de Dindinho! Meu nome é Pedro — respondia áspero, sem sequer olhar, e ia saindo.

Eu pensava odiar o fato de ter uma irmã assim. Ela insistia, amorosa, que me dava um constrangimento.
— Não, ninguém sabe, mas é Dindinho, seu nome bonito, eu chamo — dizia, como se eu continuasse presente.
Eu fugia de ter essa irmã. Os meninos me abusavam. Várias vezes briguei por me chamarem de Dindinho, o irmão da doida. Dindinho, eu mesmo não! Minha mãe já ia pegando o costume de me chamar assim, nas vontades de sempre agradar a filha. No contra, eu me rebelei, fugi de casa um dia inteiro. Minha Mãe me deu uma surra, depois, mas nunca mais me chamou daquele nome.

Por que ela existia? Eu não me dirigia a Estela. Mudava de rumo, baixava os olhos para não dar com ela. Eu a considerava um estrago na minha vida. Quis muito que morresse.
Ela me surpreendia, às vezes, antes que me mostrasse irritado, como quase sempre acontecia:
— Quando você morrer, Dindinho, de que cor você quer suas asas no céu?
Uma coisa tão sem sentido, que eu sequer respondia. Apenas fazia uma careta de enfado, balançava a cabeça negativamente. Ela me cercava os olhos, inventava brincadeiras cada vez mais estranhas para conquistar minha atenção. Isso tudo mais me afastava. Os meninos, meus amigos, considerassem que eu não tinha irmã, pois mencioná-la era já motivo de desavenças. Fiquei de mal com alguns dos melhores, tempos e tempos, por essas causas.

Diante de minha repulsa, Estela intentava uns modos de me sensibilizar, sem o menor sucesso. Um dia, posto que eu a estivesse atentando muito, ela imaginou uma proposta das mais descabidas. No começo da noite, ela, depois de tanto silêncio, me propôs com a maior certeza do mundo:
— Eu lhe dou uma coisa para sempre, aquela estrela grande será só sua a vida toda e depois, Dindinho.
— Ora, quem pode ter uma estrela, “sua doida”? — desdenhei.
— Pois pode, porque é minha e eu lhe dou só pra você, Dindinho. Mas só se você sorrir para mim, todo dia, uma vez... só uma... você quer?

Nunca soube sorrir para você, Estela, me perdoe. Quando eu tomava posse de mim mesmo em mais profundo, quando um sorriso germinava no fundo de minha alma — e seria seu! — você já não estava aqui. Até hoje só me vêm as lágrimas que nunca tive antes, quando você vivia em seu mundo de imagens que só percebi depois. Eu era mesmo um Pedro, o coração tinindo na dureza, você foi me amaciando. Você, aos quase quatro anos, me carregou no colo. Eu era seu neném, como a nossa mãe me contou, depois de tudo, tardiamente. Estela... tudo podia ser tão diferente!

A noite ia avançando, em horas que eu não conhecia, os meus olhos já desistentes. Eu me debruçava sobre a morta, o sono me empurrava para ela, nos movimentos bruscos dos cochilos. Minha mãe me mandou dormir e eu, depois de insistir negativo, enfim saí cabisbaixo da sala, a solidão me completava. Não me dirigi ao meu quarto, mas ao que ficava ao lado. E examinei os ângulos daquele lugar, tudo tão limpo e arrumado numa ordem que eu não conhecia. Ali, enxerguei os contornos deste vazio que até hoje carrego. Fiz meia-volta e caminhei para o meu leito, mas não consegui me acomodar.

O sono me apertava os olhos, uma agonia no peito teimava-me pela vigília. Quis retornar à sala, mas nossa mãe me suplicou que não com um olhar terno, tão raro aquele olhar... Eu voltei, mas não para o meu quarto. E me deitei na cama de Estela, deixando na alfazema do travesseiro o sal dos meus olhos.

Eu me vi vivendo o melhor que nossa realidade. Estela me sorria, corria de mim, eu não tinha pressa de apanhá-la, era talvez picula. O nosso quintal se alargava, o caminho de plantas, paus e pedras ia-se margeando em nuvens sem um fim que se avistasse. Eu tinha o saber de tudo, mas não me importava, o sorriso de Estela me preenchia e me fazia leve, que então voávamos. Eu queria alcançar minha irmã, mas não podia lhe pedir que parasse. Estela tinha um vôo firme e certo, e eu, me parece que só voava no seu vácuo. Mas eu a queria, buscava-a para um abraço que faltava em mim, um toque que me transmitisse os seus modos de sorrir. Eu queria conversar com as nuvens e as pedras lá embaixo já me sorriam, as folhas acenavam para mim. Estela ia-se distanciando, eu me surpreendi no cansaço desse vôo, as nuvens perdendo sua leveza. Estela! Estelinha, me dê a mão! Me leve com você!

Mas o seu sorriso já me abandonava. Ela se foi fazendo em cor de nuvem, aos poucos me vi sem olhos para tê-la. E era tarde, muito tarde: tive um sobressalto e tudo que agora eu via eram as telhas vãs do nosso quarto.

A manhã se ia acesa como as velas, numa rapidez que doía em nós. Vi que minha mãe não dormira, velara nessa noite toda uma vida ao lado da filha. Era um olhar cansado, dela para mim, com um desencanto mudo, enxergando o nosso vazio. Acerquei-me dela, os seus braços me tatearam. E logo me acariciava os cabelos com a mão direita, com a outra acariciava os cabelos de Estela. Inesquecível aquele gesto de nossa mãe, em toda a nossa vida, por seu corpo passando a nossa última sintonia.

As pessoas iam chegando, a hora do enterro se aproximava. Madrinha apagou os quatro tocos de vela acesos ao redor de Estela. Começaram a distribuir os ramos de flores para o acompanhamento. Eu reparava nos meninos e nas meninas que se acotovelavam para ver a morta. Alguns que sempre zombavam dela. Uns me pareciam tristes, outros apenas viviam uma aventura. Eu me sentia completamente afastado de todos.

Iam fechar o caixão. Minha mãe despejou mais lágrimas e inquiria Deus pela morte da filha. E até madrinha, pela vez primeira, soltou as rédeas do seu pranto. Eu me guardei no silêncio, peguei um ramo de rosas que estava próximo ao rosto de Estela. Não me pareceu que eu pudesse beijar o seu rosto agora, já que nunca o fizera em vida. Então beijei as flores e pus de volta no caixão.

Era hora, o enterro ia seguir. Quando me mandaram olhar minha irmã pela última vez, não chorei, pois me pareceu que ela sorria um sorriso longe só para eu sentir. Então percebi que ela agora se tornava como nuvens. Eu quis seguir com ela, mas não me deixaram. E me levaram Estela de mim.
O cortejo dobrou a primeira curva de nossa rua. Os meus olhos continuaram buscando, até hoje parados naquela curva sem nome. Madrinha varreu a casa, dos fundos para a porta da frente, juntando as folhas e restos de flores e tocos de velas. Deixou o montinho no pé de jambo que Estela chamava de “meu segundo amor”. Era onde minha irmã costumava ficar à sombra, enfeitando-se com as flores rubras de jambo. Ali eu derramei as minhas derradeiras lágrimas.

Minha irmã, ainda hoje eu contemplo a tua estrela e tenho uma vontade enorme de que fosse minha. Eu vejo tua imagem se projetando de lá, num sorriso longe que não me deixa desamparado. Era essa luz que você me oferecia, por apenas um sorriso que já era seu sem que eu soubesse. Quantas estrelas no céu — e eu não possuo uma sequer!

O tempo me deu estes cabelos brancos, mas a minha memória guarda os sinais do semblante de Estela, com suas alegrias sem nenhum motivo. Em nosso quintal, as pedras, os tocos de pau, as folhagens ao vento puxam conversa comigo, mas eu continuo mudo. No entanto, agora sinto: eu sou Dindinho.
 
In: FONSECA, Aleilton. O desterro dos mortos. Rio de Janeiro: Relume Dumará,
2001, p. 23-28.
Aleilton Fonseca nasceu em Itamirim, hoje Firmino Alves, na Bahia, em 21/07/1959, e reside em Salvador. Doutor em Letras (USP), é Professor Pleno (titular) da UEFS. Escreve ficção, poesis e ensaio. Estreou em 1981, com Movimento de Sondagem (poemas), e já publicou 11 livros. Tem participado de antologias e coletâneas de contos e de poesia. Em 2006 publicou As formas do barro & outros poemas (Salvador: EPP-Publicações e Publicidade) e o romance Nhô Guimarães (Rio de Janeiro: Bertrand Brasil