Edison Carneiro e la libertà di culto in Brasile IN ITALIANO E PORTOGHESE
Gustavo Rossi
Fondo privato Philon Carneiro
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

Scrittore, giornalista, etnografo e folclorista. A dispetto delle molte fasi che compongono la sua traiettoria intellettuale, possiamo dire che Edison Carneiro (Salvador Bahia 1912 - Rio de Janeiro 1972) fu innanzi tutto un grande studioso che si dedicò intensamente alla conoscenza, valorizzazione e divulgazione della cultura afro brasiliana. Focalizzò soprattutto l’importanza e il vigoroso ruolo che hanno le culture di origine africana nella formazione della nazionalità brasiliana, sebbene ciò sia stato negato per secoli. 

Quelle culture erano giunte forzosamente in Brasile, a causa dell’avido commercio negriero che alimentò gli ingranaggi del sistema schiavista nel Paese tra il XVI e il XIX secolo. La fine di questo sistema si ebbe nel 1888, ma, pur abolendo le prerogative giuridiche che fino ad allora garantivano la diversità di status tra signore, schiavo e “liberto”, l’ex-lavoratore-prigioniero non venne mai considerato nei termini di uguaglianza di diritti. Al contrario, durante il processo della fine della schiavitù, avvenne un crescente “riarmo” ideologico delle élites dirigenti e dello Stato.

Queste, private degli antichi meccanismi legali per la stratificazione di status dei gruppi, cercarono i mezzi teorici nelle scienze razziali dell’epoca per giustificare artificiosamente l’esistenza di una gerarchia sociale che volevano mantenere non solo inalterata, ma anche naturalizzata, ovvero, iscritta naturalmente nella biologia delle “razze”. Tra la fine del secolo XIX e i primi decenni del XX (ma anche dopo), nel pensiero sociale brasiliano fu centrale il dibattito razziale che evidenziava i dilemmi e le paure a partire dalle quali le élites riflettevano preoccupate sulla possibilità di progresso della giovane nazione. La vedevano pericolosamente esposta ai rischi di degenerazione e atrofia dal punto di vista della civiltà. Ciò sia per l’inferiorità congenita che si pensava caratterizzasse la popolazione negra, sia per la mistura culturale e biologica che per molti sembrava condannare a priori le chances evolutive del popolo e della nazione. L’ intelligentia di quell’epoca si avvalse di autori, specie europei, i cui lavori si basavano sugli eventuali fondamenti razziali della pazzia, dell’alcolismo e tutta una sorta di vizi e tare, considerate nocive all’ordine sociale.

Tra i tanti ricordiamo il medico italiano Cesare Lombroso (1836-1909), che influenzò molto la medicina sociale brasiliana dell’epoca per le sue idee sulla relazione tra ereditarietà e criminalità. Uguali davanti alla legge, ma condannati alla disuguaglianza per “natura razziale inferiore”. Questo fu un “mantra” della fine del secolo in Brasile, che originò molte delle diagnosi “scientifiche” sui neri e gli effetti “inquinanti” a loro associati nel meticciato. Questi concetti vennero messi in discussione negli anni ’10 e ’20 del secolo scorso, ma a partire dalle decade seguente nacquero nuove riflessioni sui gruppi afro-brasiliani, più dal punto di vista culturale che biologico. Si pensò a interventi “correttivi” dal punto di vista sociale e educativo e non da quello medico, psichiatrico o legale. In questo contesto sociale e storico appare ancor più denso di significati il percorso di Edison Carneiro, che, insieme a scrittori come Jorge Amado, Mario de Andrade, Gilberto Freyre e Arthur Ramos e molti altri, contribuì in maniera decisiva a conferire un valore positivo agli apporti delle culture africane nella formazione della nazionalità brasiliana. Infuse, così, forma e sostanza a una visione del Brasile un po’ più libera dai timori legati agli aspetti “tecnici” della sua popolazione. L’iter intellettuale di Edison Carneiro sarà sicuramente più chiaro conoscendo una serie di fattori biografici e sociali.

Nato nell’agosto del 1912 nella città di Salvador, capitale dello stato di Bahia, (secondo un'imponente bibliografia definita la “Roma Negra” o “Roma Africana”  del Brasile), Edison era il quarto figlio di una prestigiosa famiglia di mulatti che godeva di buone relazioni con settori importanti della élite politica locale. Una cosa rarissima all’epoca. Orfano di madre fin da bambino, crebbe fortemente influenzato dalla figura del padre, Antonio Joaquin de Souza Carneiro: ingegnere civile e professore universitario in una istituzione in cui, nei primi anni del secolo XX, era rarissima la presenza di docenti e alunni neri e meticci. Oltre agli stimoli culturali dell’ambiente familiare, la formazione di Edison venne influenzata dalla formazione esoterica del padre. Ciò contribuì ad aprire la sua mente a diverse religioni e anche a quelle di matrice africana. In questo senso non ci sorprende il fatto che già alla fine degli anni ’20, appena diciassettenne, Edison trasformò la sua casa in un luogo d’incontro con amici con cui condivideva idee di rinnovamento in campo politico e letterario. Tra questi amici c’era il giovane Jorge Amado, allora non ancora conosciuto. Avrebbe fatto i primi passi come romanzista grazie ad attività e riviste pubblicate dal gruppo. Insieme ad Edison Carneiro avrebbe allargato i suoi interessi sociali e culturali, al di là di ristrette cerchie selettive e elitarie, aprendosi con molto rispetto al popolo, alla cultura afro, conoscendola nei suoi aspetti sociali e religiosi.

Presto avrebbe incanalato le sue conoscenze e idee e sarebbero sfociate in una vera conversione politica che nei primi anni '30 lo avrebbe condotto al Partito Comunista Brasiliano (PCB). Fu allora che prese posizione nel campo politico e intellettuale difendendo i diritti degli sfruttati a Bahia e nel Brasile intero. Nonostante il forte pragmatismo politico e un ambiente partitario poco incline ad occuparsi di tematiche religiose, decise di lottare in primis per il diritto dei gruppi afro-brasiliani alla libertà di culto della loro religione, che fino ad allora era fortemente osteggiata e perseguitata. Valendosi della sua condizione di giornalista nelle richieste dei capi religiosi afro-brasiliani, Edison Carneiro conquistò una posizione privilegiata, in parte conquistata dalla condizione di meticcio. Divenne una sorta di mediatore a due strade: una tra religiosi ed élite baiana, l’altra fra intellettuali brasiliani e internazionali e religione e cultura afro. Come mediatore tra i capi della religione afro e l’élite baiana, si trasformò in una sorta di portavoce autorizzato delle richieste simboliche da parte dei luoghi sacri del candomblé che, in cambio, gli garantivano libero accesso per realizzare le ricerche etnografiche, base per i suoi primi libri "Religioẽs Negras" (1936) e "Negros bantos" (1937). Il secondo lavoro di mediatore era connesso al primo poiché Edison agiva nazionalmente come una sorta di facilitatore per l’accesso degli intellettuali brasiliani e internazionali (Ruth Landes, Lorenzo Turner, Donaldo Pierson ecc.) ai dati di un campo etnografico che iniziava a trasformarsi. Stava infatti divenendo paradigmatico per gli studi delle “relazioni razziali” e delle “sopravvivenze” della cultura africana sia in Brasile che nel continente americano.

Nel 1937 Edison Carneiro, grazie ai suoi legami intellettuali e politici, realizzò insieme al caro amico Aydano do Couto Ferraz, il II Congresso Afro-Brasiliano di Salvador dando continuità al primo, organizzato da Gilberto Freyre tre anni prima nella città di Recife (Pernambuco). I due congressi sembravano sintonizzati sullo sforzo di sradicare il razzismo scientifico e le teorie biologiche che pretendevano di collegare le disuguaglianze ai condizionamenti socio-culturali. Sia per la militanza nel sindacato e l’associazione di classe, sia per i forti appelli ideologici provenienti dal personale coinvolgimento nel campo degli studi sulla negritudine in Brasile, Edison Carneiro finì per adottare posizioni che si contrapponevano in gran parte al primo congresso e agli orientamenti egemonici della nascente antropologia brasiliana. Essi sfociarono non solo nella politicizzazione acuta della lotta per la libertà della manifestazione delle religioni afro-brasiliane, ma anche – e forse, la più importante – per il diritto dei suoi praticanti a organizzarsi civilmente e politicamente di modo che potessero essere gli unici e legittimi responsabili del funzionamento dei loro culti. Poteva avvenire fondando un' associazione o “federazione” dei capi religiosi e in grado di liberarli dalla condizione tutelare nella quale vivevano. Infatti fino ad allora dipendevano dagli organi polizieschi per poter realizzare senza problemi le loro liturgie e se non avevano un' autorizzazione anticipata, non potevano fare culti. Inoltre dipendevano anche dalle istituzioni mediche e dai “servizi di igiene” mentale che, dal loro canto, volevano rimpiazzare la polizia per controllare i terreiros dove si svolgevano i riti religiosi.

Come giustificazione ponevano il fatto che si trattava di ambienti propizi allo sviluppo di disturbi psichiatrici e, pertanto, potenzialmente, pericolosi per le garanzia della “normalità” e dell’ordine pubblico. L’União das Seitas Afro-Brasileiras concepita da Edison Carneiro non fu però capace di consolidarsi come lui aveva imaginato, forse in parte, per aver sottostimato le divergenze tra i leaders religiosi. Il progetto della legge di libertà di religione avrebbe dovuto aspettare più di dieci anni per essere votata e ebbe come fautore Jorge Amado, durante la sua breve esperienza come deputato federale del PCB, a metà della decade del 1940. Ma purtroppo ancora oggi sono ricorrenti notizie in Brasile sulle persecuzioni alle case di candomblé, oggetto di attacchi e dell’intolleranza di altre religioni, specie quando l’ esistenza di queste ultime si basa in gran parte sulla demonizzazione degli elementi afro-brasiliani.

In ogni caso all’epoca l’opera di Edison Carneiro costituì un notevolissimo sforzo. Forse Carneiro fu il primo in Brasile a volere fortemente il riconoscimento e la libertà piena per le religioni afro-brasiliane, senza alcuna sorta di restrizione o controllo dei fedeli. Eppure queste idee non sempre vennero accettate dagli intellettuali della sua generazione. Invece di prospettare una visione “curativa” sul nero, visto come un essere umano arretrato, in attesa di essere “civilizzato” dalla cultura bianca e europea, l’obiettivo di creare una federazione di case religiose, sembrava promuovere nel Brasile “ quello che alcuni temevano di più, ovvero lo stimolo e la preservazione di forme organizzate di tradizioni e culture afro-brasiliane”, come ha scritto l’antropologa brasiliana Josildeth Gomes Consorte in “Culturalismo e educação nos anos ‘50: desafio da diversidade” (Cadernos CEDES, v.18, n.43, dez 1997).

Traduzione di A.R.R.


© SARAPEGBE.                                                          
E’ vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati nella rivista senza l’esplicita autorizzazione della Direzione
-------------------------------------------------------------------------------


TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

Edison Carneiro e a liberdade de culto no Brasil
 
Gustavo Rossi[1]
 
A despeito das muitas faces de sua trajetória intelectual – escritor, jornalista, etnógrafo e folclorista –, pode-se dizer que Edison Carneiro (1912-1972) foi, antes de qualquer coisa, um estudioso dedicado e sensível ao trabalho de compreensão do negro no Brasil: sobretudo, ao entendimento do tortuoso, porém vigoroso processo de “aclimatação” das culturas de origens africana para a formação da nacionalidade brasileira, transplantadas através do ávido comércio negreiro que, durante os séculos XVI e XIX, alimentou as engrenagens do sistema escravagista no país.

Um sistema cuja extinção em 1888, muito embora abolisse as prerrogativas jurídicas que até então garantiam a diferenciação de status entre senhor, escravos e libertos, não implicou, por certo, na pronta aceitação do ex-trabalhador cativo como um “igual”. Pelo contrário, o que se presenciou no processo de dissolução da escravidão no Brasil foi o crescente rearmamento ideológico das elites dirigentes e do próprio Estado, os quais, desprovidos dos antigos mecanismos legais de estratificação de status entre os grupos, passaram a buscar na ciência raciológica da época as chancelas teóricas para justificar a existência uma hierarquia social que se queria não apenas inalterada mas também naturalizada, inscrita na biologia das raças.

Central para o pensamento social brasileiro entre o final do século XIX e as primeiras décadas do XX (e mesmo depois), o debate racial evidenciava, portanto, os dilemas e os receios a partir dos quais as elites letradas foram dando forma a uma reflexão preocupada com as possibilidades de progresso da jovem nação, entendida como perigosamente exposta aos riscos de degeneração e atrofia civilizacional: tanto em razão da inferioridade congênita que se acreditava acometer a população negra quanto em função da expressiva miscigenação cultural e biológica, a qual, para muitos, parecia condenar de antemão as chances evolutivas do Brasil enquanto povo e nação.

Para tanto, muito se valeu a intelligentsia daquele momento do sem número de autores especialmente europeus, cujos trabalhos sobre os eventuais fundamentos raciais da loucura, do alcoolismo e toda sorte de vícios e taras consideradas nocivas à ordem social foram fartamente consumidos deste lado do Atlântico: pode-se, inclusive, destacar o nome do médico italiano Cesare Lombroso (1836-1909), influente na medicina social brasileira da época, graças às suas ideias sobre a relação entre hereditariedade e criminalidade.

Iguais perante lei, porém condenados à desigualdade por sua natureza racial inferior, eis um mantra persistente do fin-de-siècle brasileiro e que nucleou muitos dos diagnósticos “científicos” sobre o negro e os efeitos “poluidores” a ele associados pela prática da mestiçagem. E embora muitos desses diagnósticos começassem a ser questionados já nos anos de 1910 e 20, seria sobretudo a partir da década seguinte que os grupos afro-brasileiros passaram a ser investidos de novos repertórios interpretativos, ou seja: reivindicados mais como objetos de reflexão cultural do que propriamente biológica; passíveis de intervenções “correcionais” que deveriam ser mais social e educacional e menos médica, psiquiátrica ou policial.

Tais considerações me parecem extremamente relevantes para que possamos tornar mais nítidos os significados e a importância de uma trajetória como a de Edison Carneiro que, ao lado de intelectuais e escritores como Arthur Ramos, Gilberto Freyre, Jorge Amado, Mário de Andrade e muitos outros, contribuíram decisivamente para conferir um valor positivo às contribuições das culturas africanas na formação da nacionalidade, infundindo assim forma e substância a uma visão de Brasil mais liberta dos recalques e temores ligados aos aspectos étnicos de sua população.

Uma série de fatores, tanto biográficos quanto sociais, nos ajuda a conferir alguma inteligibilidade ao itinerário intelectual de Edison Carneiro. Nascido em agosto de 1912 na cidade de Salvador, capital do estado da Bahia, consagrada por uma farta bibliografia como a “Roma Negra” ou “Africana” brasileira, Edison Carneiro foi o quarto filho de uma prestigiosa família de mulatos que gozava de trânsito e boas relações com setores importantes da elite política local. Órfão de mãe muito criança, cresceria fortemente influenciado pela figura marcante do pai, Antônio Joaquim de Souza Carneiro: engenheiro civil de sólido capital cultural e professor universitário numa instituição em que, nos primeiros anos do século XX, a presença de docentes ou alunos negros e mestiços era bastante rara. 

De outra parte, além do impacto deste ambiente familiar, a um só tempo licencioso e estimulante às divagações intelectuais e literárias dos filhos, seria importante mencionar os aspectos pertinentes à socialização precoce de Carneiro com uma profusão quase insólita de repertórios e símbolos místicos cultivados no âmbito doméstico, graças às crenças espiritualistas e aos rituais esotéricos muito pouco ortodoxos praticados pelo pai: algo que, certamente, contribuiria na produção de disposições afetivas e intelectuais para que, anos mais tarde, ele fosse capaz de objetivar uma apreensão relativizada das religiões e demais crenças extrassensíveis de matrizes africana.

Em síntese, uma convivência próxima e continuada com diversas formas de relação com o plano místico que, em boa medida, possibilitou a Edison Carneiro uma socialização frouxa com o catolicismo e suas pretensões de monopólio na legislação das matérias da fé.

Neste sentido, não surpreende que já nos anos finais da década de 1920, quando não contava mais do que 17 anos, sua casa tenha se convertido em um espaço propício para os encontros de Carneiro e seus amigos aspirantes a escritor, todos ele agitados pelas bandeiras reformistas e de renovação que acometiam o campo político e literário da época. Entre esses amigos estava o então jovem e desconhecido Jorge Amado que, por meio das atividades e revistas publicadas pelo grupo, daria seus primeiros passos como romancista, ao mesmo tempo em que, junto de Edison Carneiro, passaria a intensificar um tipo de sociabilidade que incluía a frequentação de uma boêmia socialmente “ambígua”, menos seletiva e mais “misturada”, bem como a visitação de festas e cerimônias realizadas nos terreiros dos candomblés ou nos arredores de Salvador.

Contudo, a proximidade de Carneiro com os espaços onde os traços culturais africanos eram percebidos como mais pulsantes e persistentes – em particular, naqueles relacionados às práticas religiosas –, logo deixaria de ser mediada por interesses de natureza farrista e boêmia, por assim dizer, para ganhar feições mais arrojadas e politizadas mediante sua conversão ideológica, ao engajar-se no Partido Comunista Brasileiro (PCB) nos primeiros anos dos anos de 1930. Ou melhor dizendo, na medida em que passou a justificar as tomadas de posição no campo político e intelectual como efeitos de sua vinculação aos interesses dos grupos explorados, o autor também ajustou seu olhar para o problema das “raças oprimidas” na Bahia e no Brasil.

No entanto, um olhar que, a despeito do forte pragmatismo político e de um ambiente partidário pouco afeito à temática religiosa, não resultou insensível à importância de se resguardar e lutar pelos direito dos grupos afro-brasileiros de exercitar seus cultos e perseverar suas práticas litúrgicas. Valendo-se de sua condição de jornalista para dar vazão às demandas sociais e políticas das lideranças religiosas afro-brasileiras, Edison Carneiro foi gradualmente conquistando uma posição privilegiada, em parte, conquistada pela sua própria condição mestiça.

A saber, a posição de uma espécie de mediador exercida em dois níveis: de um lado, localmente, entre essas lideranças religiosas e as elites baianas, se convertendo numa espécie de mandatário ou porta-voz autorizado das demandas políticas e simbólicas dos candomblés, os quais, em contrapartida, lhe garantiam livre acesso para realizar as pesquisas etnográficas que resultariam nos seus primeiros livros, Religiões Negras (1936) e Negros Bantos (1937), e, mais tarde, uma infinidade de outros ensaios e trabalhos nos quais retomaria o tema, por outro lado, em sensível conexão com o primeiro, atuando nacionalmente como uma espécie de facilitador ao acesso de intelectuais de diferentes regiões do Brasil e do mundo (Ruth Landes, Lorenzo Turner, Donaldo Pierson, dentre outros) aos dados de um campo etnográfico que, naquela época, começava a se transformar em paradigmático para os estudos das relações raciais e das “sobrevivências” da cultura africana no Brasil e no continente americano.

Extraindo força e capitalizando os recursos intelectuais e políticos que essa posição lhe conferiu, em 1937, Edison Carneiro realizaria, ao lado de Aydano do Couto Ferraz, um de seus mais próximos amigos e companheiro de militância, o II Congresso Afro-Brasileiro de Salvador, dando continuidade ao primeiro, organizado por Gilberto Freyre três antes na cidade de Recife. Em comum, ambos os congresso pareciam sintonizados com o esforço de esvaziar o racismo científico e as teorias biológicas que pretendiam naturalizar as desigualdades atreladas a condicionantes de social.

Contudo, fosse pela sua militância e experiência junto a sindicato e associação de classe, fosse em razão dos fortes apelos ideológicos investidos em seu engajamento no campo de estudos sobre o negro no Brasil, Edison Carneiro acabaria por adotar posições que, em boa medida, se contrapunham ao primeiro congresso e mesmo às orientações então hegemônicas da nascente antropologia brasileira. Elas resultaram não apenas na politização aguda da luta pela liberdade de manifestação das religiões afro-brasileiras, como também – e, talvez, mais importante – pelo direito de seus praticantes se organizarem civil e politicamente, de modo que pudessem ser os únicos e legítimos responsáveis pelo funcionamento de seus cultos, por meio de uma associação ou “federação” de lideranças religiosas capaz de livrá-los da condição tutelar em que viviam: tanto da parte dos órgãos policiais, dos quais dependiam de autorização prévia para poderem realizar sem problemas suas liturgias, quanto da parte das instituições médicas e dos “serviços de higiene” mental que, por sua vez, queriam tomar da polícia o papel de controle sobre os terreiros onde aconteciam os cultos, alegando-se se tratar de ambientes propícios ao desenvolvimento de distúrbios psiquiátricos e, portanto, potencialmente ameaçadores às garantias da “normalidade” e da ordem pública.

A União das Seitas Afro-Brasileiras concebida por Edison Carneiro não foi capaz de se consolidar tal como ele havia imaginado, em parte, talvez, por ter subestimado as próprias divergências entre as lideranças religiosas. O projeto de lei da liberdade de culto igualmente teria de esperar mais uma década para ser votada, tendo como autor, não por acaso se amigo de juventude, o romancista Jorge Amado, quando de sua rápida experiência como deputado federal pelo PCB, em meados da década de 1940: muito embora ainda hoje sejam recorrentes notícias sobre violência policial e repressiva sobre casas de candomblé.

Contudo, pode-se dizer que a atuação de Carneiro significou um esforço, talvez o primeiro no Brasil, no sentido de pleitear a liberdade plena e de direito das religiões afro-brasileiras, sem demandar qualquer espécie de restrição ou controle tutelar sobre seus praticantes. Ideias que nem sempre parecem ter sido bem recebidas por muitos dos intelectuais de sua geração. Afinal, ao invés de projetar uma visão “curativa” sobre o negro, visto como um ser atrasado, à espera de ser civilizado pela cultura branca e europeizada, o intento levar adiante uma federação de cultos parecia promover, como bem anotou uma antropóloga brasileira, “o que mais se temia: o estímulo e a preservação de formas organizadas de vivência afro-brasileiras” [2].
 


[1] Gustavo Rossi, pesquisador, é Doutor em Antropologia sScial pela Universidade Estadual de Campinas (Unicamp), instituição brasileira localizada no estado de São Paulo, e estudioso da história social dos intelectuais e do campo de estudos das relações raciais brasileiras. É autor do livro As cores da revolução: a literatura de Jorge Amado nos anos de 1930, lançado em 2009, pela editora Annablume/Fapesp. E-mail para contato: lgusfrossi@hotmail.com.
[2] Josildeth Gomes Consorte, “Culturalismo e educação nos anos 50: desafio da diversidade”, Cadernos CEDES, v.18, n.43, dez. 1997.


© SARAPEGBE.                                                          
E’ vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati nella rivista senza l’esplicita autorizzazione della Direzione

Gustavo Rossi è ricercatore, dottore in Antropologia Sociale all’Università Statale di Campinas (UNICAMP), istituzione brasiliana dello stato di São Paulo. E’ studioso della Storia Sociale degli intellettuali nel campo di studi delle relazioni razziali brasiliane. E’ autore del libro "As cores da revolução: a literatura de Jorge Amado nos anos de 1930!, lanciato nel 2009 dall’ed. Annablume/Fapesp.