In un’arena in cui i poteri egemonici cercano di imporre un’ideologia inevitabile e rappacificata della globalizzazione, diverse forme di soggettività sfuggono alle tecniche di governamentalità e alle pratiche di normazione neoliberista
[1]. Popoli colonizzati e schiavizzati, migranti e rifugiati, profughi e clandestini, indigeni e indigenti acquisiscono presenze che coniugano il superamento delle drammatiche disuguaglianze socio-economiche con la modifica delle forme della politica.
Incalzati dal bisogno di trovare alternative all’episteme della globalizzazione e alle dicotomie della modernizzazione (identità-alterità, omogeneità-differenza, egemonia-subalternità, centro-periferia, sviluppo-sottosviluppo), quelli che Franz Fanon chiama
i dannati della terra si emancipano da un’inclusione-escludente, limitata alla precaria riproduzione biologica di eserciti industriali di riserva
[2] e alla riduzione del cittadino a “astratta nudità dell’essere nient’altro che uomo”
[3] o a
nuda vita[4].
Laboratori di forme di umanità e di produzione culturale promuovono pratiche di cambiamento che si sottraggono ai meccanismi della dipendenza e del dominio. Intendono la diversità culturale come forza innovativa in costante mutamento e valorizzano i bisogni e le opportunità in termini alternativi al profitto. Rifiutano i fallimentari approcci assistenzialistici, i frammentari interventi emergenziali, le compassionevoli e contraddittorie azioni umanitarie, a favore di iniziative integrate e multisettoriali fondate sul protagonismo e le potenzialità alternative delle risorse umane locali. Configurano progetti di crescita collettiva che non privilegino un benessere materiale devastante per i legami sociali e per l'ambiente, rompendo con l'impresa di distruzione che si perpetua in nome dello sviluppo.
Varie esperienze “dal basso” aprono spazi antropopoietici che smantellano i sistemi di classificazione e le rigide identità essenzializzate imposte dall’alto. Sopravanzano gli obiettivi dei grandi movimenti dei secoli XIX e XX, fondati su identità e interessi universali in opposizione ad avversari concepiti in forme altrettanto omologate e generiche. Oltrepassano le concezioni universalistiche dei problemi, dei diritti o delle norme, a favore di strategie e solidarietà specifiche e contingenti, ponendo l’interconnessione globale al servizio di forme locali di potere.
Fondate sul “diritto ad avere diritti” le interpretazioni subalterne del concetto di cittadinanza come processo costruttivo e prassi trasformativa, articolano le lotte per diritti particolari con la ricerca di abolire i meccanismi di produzione dell’esclusione. Soprattutto trascendono la formale acquisizione di principi già definiti e identificano attivamente nuovi diritti imperniati sulle relazioni complesse fra aspetti materiali, economici, culturali, storici, socio-psicologici, ecologici e politici.
Da queste prospettive si possono pensare gli spazi al cui interno gli abitanti di Frechal, una comunità di discendenti di schiavi dell’area amazzonica del Maranhão, si sono trasformati da oggetti di schiavitù, discriminazione e razzismo in soggetti politici.
[5] Mobilitando la memoria storica e utilizzando una simbologia capace di legittimare le rivendicazioni e dare loro un peso giuridico, il villaggio della Baixada Occidental Maranhense ottenne il riconoscimento ufficiale di
Reserva Extrativista do Quilombo Frechal[6].
A conclusione di una disputa legale fra la comunità e un imprenditore di São Paulo che aveva acquistato l’area nel 1974 con la precisa intenzione di espellere con la forza la popolazione locale, un decreto federale del 1992 ingiungeva, dopo vicende cariche di forti tensioni e di violenza, l’esproprio di circa 10.000 ettari di terra. Il dispositivo giuridico coniuga due principi costituzionali: da un lato riconosce le relazioni armoniche fra la popolazione e le risorse naturali, protette dall’articolo 225 della Costituzione del 1988. Dall’altro tutela i diritti dei discendenti dei
quilombos, astrattamente sanciti dall’articolo 68 delle Disposizioni Costituzionali Transitorie secondo le seguenti modalità: “ai discendenti delle comunità dei
quilombos che stiano occupando le loro terre è riconosciuta la proprietà definitiva, dovendo lo stato emettere i rispettivi titoli a loro nome”.
La rilevanza e l’attualità della rivendicazione di Frechal, alla fine degli anni Ottanta pressoché inedita in Brasile, consiste nell’interpretazione delle implicazioni teoriche e delle traduzioni pratiche dell’articolo 68. Supera le contraddittorie politiche di riconoscimento contenute nelle Disposizioni Costituzionali Transitorie che, da un lato, non considerano i diritti della popolazione afro-discendente originari e inalienabili, obbligazione permanente dello Stato brasiliano in modo analogo ai diritti delle popolazioni indigene. Dall’altro svuota la vaga dichiarazione di principio con l’assenza di meccanismi di implementazione da parte della legislazione ordinaria.
Così come è strutturato, l’articolo 68 sembra dimostrare la volontà dell’Assemblea Costituente di impedirne l’applicazione, cosciente che una sua libera interpretazione comporterebbe una vera e propria riforma agraria. La Costituzione non stabilisce chi e in quale modo abbia il compito di identificare le comunità
remanescentes dos quilombos. Gioca, inoltre, ambiguamente sull’impossibilità di dimostrare che il luogo e la terra dove vivono oggi sia lo stesso di quello in cui queste popolazioni originariamente si formarono. Per la loro stessa struttura e per la mobilità, i
quilombos non permisero una continuità nell’occupazione della terra e soprattutto non lasciarono resti archeologici o prove documentali.
La struttura topologica dell’articolo 68 è una figura relazionale che fonda lo statuto del
quilombo non semplicemente sull’estraneità rispetto all’ordinamento giuridico normale ma, piuttosto, sul modello teorico di Agamben dell’essere
preso fuori, dell’”essere fuori e tuttavia appartenere” e quindi incluso attraverso la sua stessa esclusione. La sua transitorietà ed eccezionalità sono potenti tecniche di governo: la regola, non applicandosi, comprende ciò che la eccede e, nel contempo, crea e definisce lo spazio entro in cui l’assetto giuridico assume valore
[7].
Come hanno mostrato Schmitt, Benjamin e Agamben, lo stato di eccezione realizza una sovranità pressoché assoluta e totale che si situa, nel contempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico, fondando la legge mentre la sospende. La presunta deroga temporale e contestuale alle norme tende a diventare una modalità consuetudinaria e mobile del contratto sociale: la ricorrente ricorsa a mezzi straordinari finisce con lo standardizzarsi e invertire il rapporto tra regola ed emergenza
[8].
Eccedere l’eccezione
A Frechal la costruzione del campo semantico del termine quilombo ha avuto come punto di partenza le situazioni sociali contemporanee. Ha posto in relazione le lotte contro il regime schiavista con l’opposizione dei lavoratori rurali allo sfruttamento dei latifondisti. La concettualizzazione si è caratterizzata come strumento politico-organizzativo la cui finalità precipua è stata la rivendicazione della terra e il riconoscimento formale dello sfruttamento delle risorse naturali. Considera i
quilombos come i fondamenti storici delle realtà fattuali, localizzate e definite dagli attori sociali come
terras de preto e
comunidades negras rurais.
La risemantizzazione del termine
quilombo estende le definizioni originate per comprendere un crimine e per combattere le ribellioni di schiavi che hanno il proprio riferimento nella risposta del Re del Portogallo alla consulta del Conselho Ultramarino del 1740. Questa definizione considera giuridicamente come
quilombo “tutte le abitazioni di
negros fuggiti superiori a cinque, in parte disabitate, anche senza fortificazioni”. A partire da questo senso giuridico il concetto ha attraversato la storia del Brasile, passando dalle disposizioni legali del periodo coloniale alle politiche repressive del periodo imperiale, dalle legislazioni provinciali dopo l’Indipendenza alla legislazione repubblicana e alla Costituzione del 1988.
Le narrative epiche degli attori sociali e le azioni giudiziarie capovolsero, rendendoli positivi, gli stigmi del pensiero giuridico: disordine, indisciplina sul lavoro, auto-consumo, cultura marginale e periferica. Re-interpretarono le rigide designazioni di ciò che stava “fuori” dal sistema e le distinzioni fra i luoghi solitari, disabitati e selvaggi, sotto il dominio assoluto della natura, da quelli nei quali il processo di popolamento e di colonizzazione stabilì unità produttive. La classificazione criminale delle attività di fuga fu intesa come rifiuto dei meccanismi coercitivi della disciplina del lavoro e negazione del dominio della grande proprietà monocolturale.
Da questa prospettiva gli elementi costitutivi della concettualizzazione del
quilombo si fondano sulle azioni in gruppo che negarono il sistema schiavistico, collocandosi ai margini dei circuiti del mercato. Comprendono diverse forme di occupazione del territorio e di esistenza delle comunità originatesi nei limiti storici delle crisi dell’economia capitalistica e della disgregazione delle grandi piantagioni di zucchero. Rimandano alla formazione di contadini rurali relativamente liberi, non più immobilizzati nelle antiche unità produttive a causa del rilassamento dei meccanismi di repressione della forza-lavoro e delle concessioni dei latifondisti per sfuggire alla rovina, ma organizzati in una costellazione di piccole unità autonome, basate sul lavoro famigliare, sulla cooperazione fra differenti gruppi domestici e sull’uso comune delle risorse naturali
[9].
Lo schema interpretativo adottato sottrae le realtà dei
quilombos a un contenuto primordiale circoscritto spazio-temporalmente e consegnato a localizzazioni geografiche o alla memoria di un passato a cui prestare omaggio nella memoria degli eroi che lottarono contro la schiavitù. A partire dal suo contenuto storico il termine ha subito un processo di risignificazione applicabile alle situazioni contemporanee di gran parte della popolazione rurale brasiliana. Identifica le situazioni sociali che designino un processo di lavoro autonomo e le colloca nell’arena politica e sociale in continuo movimento. Il
quilombo diviene un dispositivo strategico per identificare precise relazioni di produzione e un sistema socio-economico fondato sull’appropriazione collettiva delle risorse. Designa nuclei di resistenza contemporanei, progetti di nuovi ordini politici in contrappunto alla logica di espansione neoliberista nelle aree rurali.
Riannodando i fili di una storia interrotta dalla schiavitù, dalla modernizzazione, dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione selvaggia, il popolo di Frechal costituisce un esempio paradigmatico dei processi endogeni di cambiamento “dal basso”. Interpreta le potenzialità aperte ai gruppi subalterni per costruire azioni innovative, per organizzare le economie, per trattare i diritti e i bisogni. La sua esperienza emancipatoria contradice le tecniche di governamentalità eccezionale e transitoria e i tentativi di affermare un’ideologia totalizzante della globalizzazione come qualcosa di inevitabile e di già compiuto che risolve le conflittualità e le stratificazioni interne. Ne presenta, invece, la complessità nei microprocessi della vita quotidiana, affrancati da un’unica logica di margine.
Le comunità
quilombola sperimentano profili di cittadinanza che connettono la generica sfera dei diritti con la sua fondazione socio-economica così come il rifiuto della semplice fruizione di ordinamenti e principi già definiti con la partecipazione attiva alla loro ridefinizione. Recuperando il principio della partecipazione nell’esercizio e nella definizione del potere previsto dall’articolo 1 della Costituzione del 1988, promuovono il diritto a partecipare a ridisegnare il sistema giuridico, socio-economico e politico. In questo consiste l’attualità e l’agentività politica delle
comunidades negras rurais brasiliane. Le loro voci marginali divengono centrali nel proporre modelli paradigmatici per pensare le soggettività contemporanee, dislocate e decentralizzate dall’accelerazione dei meccanismi della globalizzazione.
[1] Malighetti Roberto, La centralità dei margini, in Rossi A. Comprendere il dissenso: prospettive etnografiche sui movimenti sociali, Perugia, Morlacchi, 2012.
[2] Marx, Karl. Das Kapital: kritik der politishen ekonomie. Berlin, Dietz, 1867.
[3] Arendt, Hannah. The Origins of Totalitarianism. New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1951.
[4] Agamben, Giorgio. Homo Sacer . Il potere sovrano e la vita nuda. Torino, Einaudi, 1995.
[5] Il testo si basa su un esteso lavoro sul campo in una comunità brasiliana di discendenti di schiavi della Baixada Occidental Maranhense: Malighetti, R. (2004). Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una comunità brasiliana di discendenti di schiavi. Milano: Raffaello Cortina (trad. portoghese; O Quilombo de Frechal. Identidade e trabalho de campo em uma comunidade brasileira remanescentes de escravos. Brasília: Ediçoes do Senado Federal).
[6] Portoghesizzazione del termine bantu quibundo kilombu, che originariamente significava l'accampamento o la tenda, il termine quilombo è stato usato nel XVII secolo per denotare i campi di concentramento degli schiavi dell'Africa occidentale, venendo successivamente a definire giuridicamente i luoghi di fuga degli schiavi brasiliani.
[7] Agamben, Giorgio. Homo Sacer. Il potere sovrano e la vita nuda. Torino, Einaudi, 1995, p. 190; Agamben, Giorgio. Stato di eccezione. Torino. Bollati Boringhieri, 2003, p. 48
[8] Schmitt, C., 1921, Die Diktatur, Munchen, Duncker e Humbkot, ; trad. it. La dittaura, Roma-Bari, Laterza 1975; Benjamin, W., 1955, Schriften, Suhrkamp, Verlag, Frankfurt am Main ; trad. it. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962.
[9] Almeida de, Wagner A. (1989). Terras de Preto, Terras de Santo, Terras de Índio. Uso Comum e Conflito, Cadernos do NAEA, 10, 163-196. Il termine terras de preto comprende le proprietà donate, abbandonate o acquisite, con o senza formalizzazione giuridica, da parte di famiglie di ex-schiavi. Abbraccia varie forme di accesso alla terra, da parte delle comunità negre rurali. Innanzitutto i domini corrispondenti agli antichi quilombos e alle aree di schiavi fuggitivi nonché le concessioni fatte dallo Stato in ricompensa delle prestazione di servizi militari in guerra e le situazioni in cui i grandi proprietari, rimasti senza un forte potere di coercizione, adottarono l’enfiteusi.