BOA SORTE: STORIE DI EMIGRANTI ITALIANI IN BRASILE. O Doutor Siro, anni Trenta
Andrea Lilli
Siro Lilli, Giuseppina, Giorgio, Mario e Bruno
I parenti non si scelgono. E io mi ritrovo familiari sparsi per il mondo, vecchi e nuovi, nati qua e là, e che spesso si sono allontanati dal luogo di origine, appena hanno potuto. A causa di questa costante centrifuga del mio parentado, per fare mente locale cominciai fin da bambino ad orientarmi associando ai quattro nonni i quattro punti cardinali.
Al Nord Giuseppina, la piemontese educata in Svizzera, il suo Siro all'Ovest, al profondo Sud Giovambattista, un gigante da Pantelleria, a braccetto della piccola, adriatica Lucia dell'Est. Dunque: del S/E i nonni materni, più bonari e solari, mediterranei; i paterni, testardi e rigorosi, sistemati nel fronte N/O. Ma mentre ho potuto conoscere e amare gli altri tre, il nonno paterno l'ho visto solo in pochissime fotografie, e di lui poco sapevo fino a ieri, quando, finalmente, sono riuscito con un trucchetto a strappare dalla memoria di mio padre qualcosa di più, e di scritto perfino.
Ho dedicato perciò questo spazio alla figura per me ancora misteriosa e leggendaria del mio nonno occidentale Siro, riportando qualche ricordo del suo primogenito Giorgio, nonno a sua volta di otto nipoti, tra cui Alessio e Valentina.
"Di mio padre so molto, perché me ne parlava spesso mia madre, mostrandomi anche fotografie scattate in vari luoghi; ma direttamente ricordo poco, solo episodi brevi e separati ma molto vivi e 'a colori', e tutti ambientati in Brasile.Dopo le nozze, la decisione di mio padre di andare in Brasile non costituì per mia madre un problema: fin dall'infanzia era stata abituata a viaggiare; inoltre, amava molto il suo impetuoso marito. Ma anche Siro doveva amarla davvero molto se, pur di sposarla, e in chiesa come lei voleva, acconsentì farsi battezzare. Infatti, suo padre Tito, socialista ottocentesco fieramente anticlericale, non aveva fatto battezzare nessuno dei suoi figli; e il matrimonio religioso del suo primo figlio gli procurò un vero dispiacere.
Appena sbarcato a Bahia (Salvador da Bahia de Todos os Santos, capoluogo della regione di Bahia) con la sposa, il giovane medico avrebbe voluto correre a lavorare nella foresta. Ma la legge brasiliana glielo impediva: prima, doveva fare un corso di convalida della sua laurea bolognese. Così rimasero a Bahia, in una casa della Avenida do Farol (Viale del Faro), dove nacqui io un anno dopo. Poi con il neonato i miei genitori partirono per l'interno, muovendosi tra i villaggi del Sertão ai margini della foresta, e anche dentro la foresta.
Due anni dopo di me nacquero due gemelli, e allora mio padre si rese conto che la foresta con le capanne e le piroghe era un ambiente poco adatto a una giovane madre con tre bimbetti; si spostò nel sertão ai margini del Mato in un paesello polveroso che si chiamava Jequié, dove c'erano anche una piccola chiesa e varie case in muratura. Prese in affitto la più bella di queste, con un giardino pieno di alberi e un grande cortile recintato, e aprì uno studio medico, forse l'unico in un raggio di non so quanti chilometri.
E qui da ogni parte venivano a farsi curare indios e meticci, arrivavano con carri a cavalli che legavano al cancello, e pagavano con galline, maiali, manioca, cesti di frutta, anche con uccelli variopinti, scimmie ed altri animali. Mio padre aveva una passione per gli animali, mentre mia madre non li soffrì mai, nemmeno quelli domestici: ma lei non osava vietare che molte bestie di varie specie vivessero con noi, nel grande cortile e dentro casa.
Gli indios avevano saputo di quella passione del medico, e facevano a gara per portargli bestie, anche stranissime, che mio padre accoglieva con entusiasmo, teneva per qualche tempo libere o incatenate nel cortile, e poi faceva riportare nella foresta.
Ricordo bene l'arrivo di un enorme tamanduá-bandeira (una specie di formichiere amazzonico col pelo lungo e la coda a ventaglio) che a me parve grande come un vitello, e stava fermo e triste incatenato in cortile, finché un giorno mio padre decise di andare con un carro a cavalli, su cui aveva fatto salire anche me, a liberarlo in una zona piena di termitai rossi che a me sembravano alti come capanne.
Libera in cortile stava invece la capibara, un roditore identico ai porcelli d'India ma grande come una pecora, vegetariano e inoffensivo: un giorno andai in cortile mangiando un panino: la capibara mi si avvicinò, sentì l'odore del panino, si rizzò sulle zampe posteriori per prenderlo con i due grandi denti che vidi bianchissimi addosso alla mia faccia, mi rovesciò a terra e io mi feci un taglio sulla punta del mento, con molto sangue. Mio padre mi cucì la ferita. Rimase una cicatrice, visibile ancora oggi.
La capibara fu rispedita nel Mato.
Ma arrivò il veado, una specie di piccola antilope, graziosissima, con due lunghi e aguzzi cornetti paralleli. A mio padre piaceva farlo correre, velocissimo, nel cortile; finché un giorno il veado a tutta velocità andò a conficcare le due punte nel ginocchio destro di mio padre, che per qualche tempo dovette camminare con le grucce. Io avevo assistito alla scena, che mi sembrava tutto un gioco. Avevo fra i tre e i quattro anni.
L'unica vera paura in quel cortile la ebbi una volta che mi ero avvicinato ad un giovane aiutante mulatto che mia madre aveva incaricato di portar via un mucchio di rottami. Stavo guardandolo mentre lavorava, e improvvisamente lui fece un balzo verso di me gridandomi di star fermo, e col bastone della scopa diede un gran colpo vicino ai miei sandali trafiggendo un enorme ragno nero peloso: sentii uno scricchiolio, vidi uscire dal corpo del ragno che si contorceva a terra un liquido arancione che mi fece molto schifo, ma mi mossi solo quando quel ragazzo mi disse di rientrare in casa. A me quel ragno tutto pelo mi sembrò grande come un catino, e così lo ricordo. Quando mio padre lo seppe, disse che era un migale, velenosissimo, e diede molte monete al giovane mulatto.
Vari animali, non pericolosi, erano anche dentro casa: un armadillo, che andava sempre a nascondersi sotto i mobili, e mi piaceva molto; alcuni pappagalli multicolori; un soffré, che era un uccello nero lucente, sottile, bello, che ricantava benissimo e subito le canzoni che gli venivano fischiate davanti, ed era l'unico animale che piacesse a mia madre. Ma in casa il suo Siro teneva in gabbie di rete anche dei serpenti dai colori vivaci, e ricordo che li nutriva con uova sode e animaletti, socchiudendo uno sportellino posto in alto.
Molto importante, nella casa di Jequié, fu per qualche tempo la presenza di Chico, una piccola scimmietta dal volto simpatico che sembrava sorridere sempre. Chico era mobilissimo, saltava senza sosta sulle persone, sui mobili e sugli alberi, ma non se ne andava mai via da casa. Un giorno i miei genitori erano seduti in giardino sotto un grande albero con degli amici, e c'ero anch'io. Improvvisamente arrivò Chico, saltò sul tavolino, afferrò una tazzina e si arrampicò sull'albero passando da un ramo all'altro. Ricordo mia madre che gridava: - Chico, porta qua la tazzina! -; lui si fermò a guardarci dall'alto, facendola oscillare da un dito infilato nel manico. Mia madre insisteva. E alla fine Chico scagliò giù la tazzina, che andò in mille pezzi. Tutti ridevano, tranne mia madre.
L'ultima storia di animali mi riguarda direttamente, e tutte le volte che l'ho ripensata mi è parsa incredibile, benché mia madre mi abbia poi confermato che era realmente accaduta.
Mio padre aveva un fucile, forse due. Un giorno, insieme al suo aiutante di fiducia Everaldino, un meticcio alto e magro, mi prese con sé e mi portò lontano, dove cominciava la foresta; c'era un piccolo villaggio di capanne vicino a un fiume, largo e molto verde. Si fece prestare una barchetta, dove mi pose a sedere.
Everaldino remava, mio padre teneva il fucile. A un certo punto mi spogliò nudo, mi disse:
- Adesso impari a nuotare -. Mi buttò nell'acqua gridandomi: - Nuota, nuota! -. Nel fiume c'erano degli jacaré, dei caimani. Io non li vedevo, non avevo paura, cercavo di nuotare. E mio padre si mise a sparare a qualche jacaré che stava avvicinandosi. Udii molti spari, che mi parevano fortissimi. Poi mio padre si sporse dalla barca, mi tirò dentro, e mi disse: - Bravo, sei stato coraggioso -.
Una mattina, venni svegliato da una musica che veniva da fuori. Mi alzai, e senza che nessuno mi vedesse uscii scalzo nella strada. Avevo un pigiama rosso. Seguii la musica, proveniente da una tenda rizzata di notte nello spiazzo davanti alla chiesa. Mi misi carponi, alzai un lembo della tenda, e vidi degli indios tutti dipinti che ballavano in tondo cantando e suonando. Mi scorsero subito, mi cacciarono via: - Va embora menino -, vattene bambino, e io scappai a casa, dove mia madre mi stava cercando ed era già in allarme. Io dissi quel che avevo visto, fui sgridato e perdonato.
Poi per tutto il giorno quegli indios, che si chiamavano caboceiros, passarono e ripassarono per il paese danzando e cantando sempre la stessa canzone e vendendo pirulitos anfilados em um palito, grosse caramelle coniche di zucchero colorato infisse su stecchi di canna: costavano um tustão, un soldo. E la sera mio padre e mia madre mi portarono in piazza a vedere lo spettacolo, che era bello, con il fuoco al centro.
Mi comprarono anche dei pirulitos di vari colori. Imparai la loro canzone che diceva: «Oh minha gente, anda ligèro, vem o chegada dos caboceiros», Oh mia gente, vieni veloce a vedere i caboceiros; e forse c'era anche una seconda strofa, ma sempre con la stessa musica che non ho più dimenticato. Fu una giornata bellissima, mi sembrava di stare dentro una favola, anche perché indios così colorati e pieni di penne e piume non ne avevo ancora visti.
Avevo già più di quattro anni. Poco tempo dopo, mio padre morì. Aveva saputo che in una qualche parte del Mato, non molto lontana, c'era una tribù dove tutti stavano morendo. Decise di andare a vedere e portare soccorso. Disse a mia madre che sarebbe stato via un po' di giorni, e portò con sé Everaldino. Due o tre settimane dopo Everaldino tornò, con il corpo di mio padre in una bara: era morto anche lui per l'epidemia di tifo tropicale - un'infezione che oggi si cura con pastiglie di sulfamidici - che aveva sterminato la tribù. Aveva trent'anni, tre mesi e dieci giorni. Mia madre fu aiutata da tutto il paese di Jequié a sistemare le cose e a partire con i tre bimbetti per Bahia, dove fu sepolto 'o Doutor Siro'. Ci imbarcammo su un mercantile per l'Italia.
Cara Valentina, forse un giorno, se sarai davvero curiosa, ti scriverò di altri periodi della mia vita. Nonno Giorgio."
Andrea Lilli. Bibliotecario-archivista e documentalista, lavora nella Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma. Suo padre, nato a Bahia nel 1929 da genitori italiani, gli narro' il presente racconto, gia' pubblicato nella edizione online del periodico "Diario della settimana".