Il brasiliano di Otranto
Luiz Ruffato
Foto Otranto: Di Freddyballo - Own work, transferred from it.wikipedia. Original upload date: 7 April 2008, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3919221
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

 
L'incontro di Bari per discutere di azioni concrete volte a formulare politiche di tutela degli immigrati provenienti dall'Europa orientale, che arrivavano in numero sempre crescente nell'Unione Europea, si è concluso senza progressi significativi. È sempre frustrante vedere gli interessi economici prevalere sulle questioni umanitarie. Ho comunque deciso di seguire il piano che mi ero prefissato prima di partire: approfittare della vicinanza e conoscere Otranto. Confesso, imbarazzato, che il mio interesse è rivolto alla visita del famoso castello, il luogo scelto dal romanziere inglese Horace Walpole per raccontare le tragiche e assurde storie della maledizione che si abbatté sui discendenti del principe Manfredi, un libro che accese le mie fantasie di adolescente solitario e malinconico.

Così, a metà mattina di un soleggiato sabato, ho preso un treno per Lecce e un altro da Lecce a Maglie, dove sono salito, con un colorato gruppo di turisti americani, su una litorina che ci ha lasciato alla piccola stazione di Otranto, la città bianca che si allunga languidamente lungo il canale azzurro, dove le acque del Mar Adriatico abbracciano quelle del Mar Ionio. Percorro le strette vie fino alle mura del castello, con il respiro un po' alterato dall'emozione che ho tenuto nascosta per anni. Ed è stata una delusione. Il castello è lì, proprio come l'avevo immaginato, ma evidentemente privo della sua atmosfera lugubre; i fantasmi non appaiono all'improvviso dagli angoli bui, non si odono  urla disperate o il rumore di catene che strisciano. È un castello bellissimo, un tempo impavido difensore dei suoi abitanti, ma solo un castello… Un’ora dopo, mi sono ritrovato in un ristorante in via Immacolata a mangiare linguine ai frutti di mare, accompagnate da due bicchieri di Greco del Sannio.

L'eccellente pasto e, forse soprattutto, l'estasi provocata dall'anima del vino, compensano la mia delusione e decido di girovagare senza meta, il modo migliore per sorprendere noi stessi quando ci si trova in una terra straniera. Tuttavia, mi bastano pochi passi per ritrovarmi di fronte alla cattedrale di Santa Maria Annunziata, una chiesa dell'XI secolo il cui pavimento è costituito da un incredibile mosaico del XII secolo raffigurante i segni zodiacali, cosa insolita per una chiesa cattolica. Lì mi sono soffermato, incantato dagli affreschi bizantini e dalla cappella dedicata ai martiri di Otranto, assassinati nel XV secolo quando la città fu presa dai turchi. Mentre esco, rapito da tanta bellezza, ho sentito il bisogno di bere qualcosa, la temperatura era sicuramente sopra i trenta gradi.

Entro distrattamente nel Caffè degli Amici, in Corso Garibaldi, e subito una voce maschile amichevole emerge dall'interno in penombra: Buongiorno, amico! Ricambio il saluto, accenno al caldo e gli chiedo cosa possa offrirmi per placare la mia sete e rinfrescarmi la gola. Mi suggerisce una granata spremuta, che accetto senza esitazione, e indico un tavolo. Mentre aspetto il succo di melograno, dietro la cassa noto una piccola bandiera brasiliana che, sebbene con cornice e sotto vetro, mostra evidenti segni di deterioramento. Rimango così sorpreso che, non riuscendo a trattenermi, torno al bancone e, indicando il dipinto sul muro, chiedo: - Mi scusi, ma quella bandiera brasiliana…

L'uomo, che deve avere circa sessant'anni, con i capelli grigi e ricci, la pelle marrone scuro, gli occhi neri, un tipo non molto diverso dagli altri abitanti di quella parte d'Italia, sorride e mi dice: - Beh, io sono brasiliano, capisci?! –
- Anch'io - dico, emozionato come raramente mi capita –Mi chiamo Dório, possiamo parlare in portoghese? -  Stringendomi la mano, dice in portoghese: - Sebastiano, piacere di conoscerti! -  E poi prosegue in italiano: - Purtroppo non so più parlare portoghese, prima lo sapevo un po', ma siccome non avevo nessuno con cui esercitarmi, ho dimenticato... Ricordo solo parole sparse e una o due frasi, grazie, ci vediamo domani, calmati leone... -
- Ma non sei brasiliano?! – chiedo, e lui continua: - No, sono italiano, sono cresciuto qui a Otranto... Mio padre era brasiliano... Di Bahia...
- Scusi l'indiscrezione, ma come è finito a Otranto? – gli chiedo.
- Ah, è una lunga storia – sospira e, forse, visto che non c’è nessun altro, aggiunge: - È passato tanto tempo, solo i più grandi si ricordano ancora di mio padre, è diventato un cittadino noto e stimato, ma all'inizio ha dovuto affrontare molti pregiudizi, era nero, straniero, non parlava italiano... Comunque, è una lunga storia, che risale al tempo della guerra... –

Gli faccio capire che non mi dispiace ascoltarla e allora Sebastiano, soddisfatto, me la racconta.
– Natalício Silvino, mio ​​padre, era un uomo bello, elegante e amichevole. Provava un grande piacere nella conversazione e, sebbene fino alla fine della vita parlasse male l'italiano, parlava bene il dialetto e chiunque lo ascoltasse rimaneva incantato dai suoi modi piacevoli e coinvolgenti. Quelli con cui parlava li chiamava tutti amici, tanto che col tempo cambiò il nome del bar, che da “Il Piccolo Caffè di Luigi” divenne “Caffè degli Amici”, perché per lui tutti i suoi clienti erano davvero amici. Tuttavia, si rifiutava di parlare di alcuni argomenti, di politica, di calcio e, soprattutto, di dettagli del suo passato. Quel poco che so lo devo al ricordo di mia madre, che grazie a Dio è ancora viva, e lui affidava tutto a lei. Per darvi un'idea, io mi chiamo Sebastiano in onore di mio nonno, ma queste sono le uniche informazioni che ho sulla famiglia di mio padre, a parte il fatto che erano contadini molto poveri in un posto chiamato Sant'Anna[1]. Ebbene, all'età di vent'anni fu chiamato alle armi. Dopo aver ricevuto un addestramento militare di base a Bahia, San Paolo e Rio de Janeiro, dove imparò a guidare, sbarcò a Napoli nel luglio del millenovecentoquarantaquattro. A mio padre fu assegnato il compito di guidare una jeep, soprannominata Chiquinho[2], che, oltre a essere utilizzata per il trasporto degli ufficiali, serviva anche per le comunicazioni tra la prima linea e le retrovie. Era presente alle prime battaglie dei pracinhas[3], si dice così, giusto? – nei pressi di Lucca, dove si ebbero anche le prime vittime durante un contrattacco nazista. Fu poi trasferito al fronte nei pressi di Pistoia. Mia madre ricorda che mio padre si lamentava dell'inverno, con quasi venti gradi sotto zero, dormiva in una specie di sacco a pelo sopra la neve, si avvolgeva i piedi nel fieno dentro gli stivali per evitare che andassero in cancrena. Sviluppò una vera e propria avversione per il freddo, l'unica cosa che non faceva era vestirsi pesante d'estate, cosa che qui, come potete vedere, è brutale. Vicino alla trincea c'era un ponte: da una parte gli Alleati, dall'altra, in cima alla montagna, i tedeschi, e l'obiettivo era quello di sloggiarli. A dicembre, dopo una violenta battaglia in cui le truppe brasiliane subirono numerose perdite, mio ​​padre non ne poté più. Il freddo estremo, il rumore dell'artiglieria, le urla dei feriti dai mortai, i cadaveri ammucchiati, tutto questo sembra aver contribuito a causare un crollo nervoso a mio padre. Così decise di scappare. Se tu avessi conosciuto mio padre, un uomo pacifico e rispettoso della legge, non crederesti che lui fosse capace di gesti temerari. Sapeva di correre il rischio di essere arrestato e sottoposto alla corte marziale, ma lo stato di panico in cui si trovava oscurava la paura delle possibili conseguenze di una ritirata. All'alba, lui prese la jeep con il serbatoio pieno e altri due galloni di benzina nascosti sotto un telone e si diresse verso sud, sperando di raggiungere Napoli e trovare qualcuno disposto ad aiutarlo a tornare in Brasile. Così, senza cartina,  senza bussola, affidandosi solo all'intuito, mio ​​padre scese al sud evitando sempre le strade principali. Mia madre disse che era inorridito da ciò che aveva visto: campi bruciati, città e paesi distrutti, bambini che rovistavano nella spazzatura in cerca di cibo, donne che si offrivano in cambio di barrette di cioccolato, anziani e anziane che si rifugiavano dietro i muri in rovina di case senza tetto. Senza rendersene conto, sprofondando nei sentieri fangosi e sotto una pioggia incessante, mio ​​padre andò sempre più verso est. Finché, ad un certo punto, rimase senza carburante e dovette proseguire il viaggio a piedi. La vigilia di Natale, Cataldo Mazzotta, che sarebbe diventato mio nonno, trovò mio padre steso, semi-incosciente, sul ciglio della strada nei pressi di Serrano, magro e sporco, e, sebbene avesse paura, perché era un forastir, un forestiero, uno straniero, vestito con una divisa sconosciuta e, per giunta, un negro, decise di aiutarlo. Lo avvolse in sacchi di juta, gli diede vino da bere, olive da mangiare, lo caricò sul suo camioncino Fiat e lo condusse nella fagna[4] della sua casa, a Cannole. Lui vi rimase per alcuni giorni, sotto le cure di Caterina la donna che sarebbe diventata mia madre. Lei era terrorizzata da mio padre: gli porgeva il piatto fumante di minestra – l’unico pasto comune a tutti – e fuggiva via. Nònne Cataldo era un uomo amareggiato, ma generoso. Aveva perso i suoi due figli in guerra – Nicola durante l’invasione dell’Egitto nel dicembre 1940 e Donato in Grecia un anno dopo – . Sua moglie, nonna Filomena, era morta quell’autunno di dolore. Quando si fu ristabilito, mio ​​padre cominciò ad aiutare il nònne nel suo lavoro, che consisteva nell'acquistare il poco olio che ancora produceva nei campi adiacenti e cercare di rivenderlo a Otranto. Non ha mai chiesto nulla sul passato a mio padre: lo ha accettato come un'apparizione, qualcosa di inspiegabile che, in un certo senso, era giunto per sostenerlo nella vecchiaia, sostituendo i suoi due figli tanto rimpianti. Così, quando mia madre, che senza rendersene conto si era pian piano innamorata di mio padre, gli disse di essere incinta, lui neppure si arrabbiò. Erano tempi difficili e strani e, pragmaticamente, capiva che mia madre difficilmente avrebbe trovato un marito migliore, soprattutto perché gli uomini erano morti, o storpi, o pazzi, o scomparsi. Inoltre, la semplice presenza di mio padre aiutò l’attività, poiché molte persone lo cercavano, attratte dall’ “esotismo” che lui rappresentava. Si arrabbiò solo quando mio padre non poté sposare ufficialmente mia madre, dal momento che non aveva i documenti. Mio nonno aveva sognato di entrare fiero nella chiesa di Maria Santissima Madre di Dio a braccetto con sua figlia, esibendosi alla comunità. Ma ben presto accettò che a quel tempo c'erano molte ragazze-madri e che la povertà aveva la meglio su ogni possibilità di giudizio morale. E la mia nascita, il quattordici settembre millenovecentoquarantasei, compensò ancora di più la sua frustrazione, perché, in mezzo alla mancanza di tutto, riuscì perfino ad organizzare una piccola festa per il mio battesimo. Ebbene, per non dilungarmi troppo su questa storia, che è già lunga, la vita dopo la guerra stava gradualmente tornando alla normalità, ma mio nònne, molto testardo, non permetteva a nessuno di interferire nella direzione delle sue attività, non riusciva ad adattarsi ai nuovi tempi. Inoltre, la sua fragile salute, dovuta ai gas respirati durante la Grande Guerra, si era notevolmente deteriorata a causa della mancanza di cibo, vestiti e medicine. Rendendosi conto di ciò, e preoccupato di far insediare definitivamente mio padre in quella terra (in fondo, temeva ancora che volesse tornare in Brasile), acquistò questo bar, che era rimasto chiuso dall'arrivo degli alleati nella regione, lo regalò a mia madre e morì meno di un anno dopo. All'inizio, a causa dei pregiudizi, venivano qui in pochi. Mio padre si fermava sulla porta e salutava in dialetto chiunque passasse: - Bunj’orn, sinnò! Bunj'orn, signore! Bunj'orn, signurinna! Bunj'orn, amico mio! - Lentamente e carismaticamente, conquistò l'intero quartiere. Prima arrivarono i raghe, i giovani, poi i vecchjaru, i vecchi. Io sono cresciuto tra questi tavoli e queste sedie, coccolato dai clienti, aiutando mio padre che purtroppo è mancato prematuramente, per un improvviso infarto. Aveva cinquantadue anni. Allora ho preso io in mano l'attività, mi sono sposato, mia moglie si chiama Simona, è infermiera alla Misericordia, e abbiamo due figli, Laura e Cataldo, un omaggio al nonnè: Laura vive a Roma, lavora nella produzione di filmati pubblicitari, e Cataldo ha un'officina meccanica a Uggiano La Chiesa. Ebbene, quella bandiera brasiliana l'ho trovata in fondo a un baule in cui erano conservate le cose di mio padre a casa di Nonne, a Cannole. L'ho incorniciata e appesa qui, per ricordarlo sempre, era un uomo ammirevole... Ci credi che mio padre aveva così tanta paura di essere catturato che non lasciò mai Otranto? Secondo mia madre, lui diceva che tutto ciò che contava per lui stava lì: la famiglia, gli amici. Non ha mai contattato nessuno in Brasile, devono pensare che sia morto sul campo di battaglia... Meglio così, non credi? -

Dissi di sì, ordinai un'altra granatra spremutta e mi sedetti, osservando i vecchjaru che, salutando animatamente Sebastiano, si avvicinavano in gruppo per prendere un caffè e chiacchierare in quel tardo pomeriggio estivo.
 
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Luiz Ruffato – Nato a Cataguases (MG), nel 1961. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Erano molti cavalli, Inferno temporaneo, Ormai non ti ricordi più di me, Ero a Lisbona e mi sono ricordato di te, Fiori artificiali, La fine dell'estate e Il vecchio futuro. I suoi libri hanno ricevuto premi nazionali (Machado de Assis, APCA e Jabuti) e internazionali (Casa de las Américas, a Cuba). Nel 2012 è stato scrittore in residenza presso l'Università di Berkeley (USA) e ha vinto i premi Escritor Galego Universal (in Galizia, nel 2015) e Hermann Hesse (in Germania, nel 2016). I suoi lavori sono pubblicati in 15 paesi.


[1] Ci sono per lo meno tre città con questo nome, nello stato di Bahia: Santana, Feira de Santana e Riacho de Santana
[2] Credo che questo sia il soprannome della jeep, che Sebastiano pronunciava Scicchigno o qualcosa di simile.  
[3] Ciò che diceva era incomprensibile, ma certamente a, intendeva dire pracinhas che in italiano significa soldato.
[4] Termine dialettale salentino che, dal contesto, credo si riferisca a granaio o magazzino.
 
 
 Traduzione dal portoghese di A.R.R.
 
 
© SARAPEGBE.                                                          
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TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

O Brasileiro de Otranto
por
Luiz Ruffato


                                       

                                                                                         Foto Otranto:
Di Freddyballo - Own work, transferred from it.wikipedia. Original upload date: 7 April 2008, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3919221


A reunião em Bari para discutir ações concretas para formular políticas de proteção aos imigrantes do Leste Europeu, que chegavam em levas cada vez maiores à União Europeia, terminara sem avanços significativos. Sempre frustrante perceber os interesses econômicos se sobreporem às questões humanitárias. No entanto, resolvi cumprir o programa que havia estabelecido ainda antes de viajar: aproveitar a proximidade e conhecer Otranto. Confesso, constrangido, que meu interesse era visitar o famoso castelo, local escolhido pelo romancista inglês Horace Walpole para desfilar as trágicas e absurdas histórias da maldição que recaiu sobre os descendentes do príncipe Manfredo, livro que incendiou minhas fantasias de adolescente solitário e melancólico. 


Assim, no meio da manhã do sábado ensolarado, tomei um trem até Lecce e outro de Lecce a Maglie, onde embarquei, com um espalhafatoso grupo de turistas norte-americanos, numa litorina que nos deixou na pequena estação de Otranto, a cidade branca espreguiçando-se lânguida junto ao azulíssimo canal, onde as águas do mar Adriático abraçam as águas do mar Jônico. Desci pelas ruas estreitas diretamente para as amuradas do castelo, a respiração um tanto quanto alterada pela emoção durante anos resguardada. E foi uma decepção. O castelo encontrava-se lá, tal e qual eu imaginara, mas evidentemente despido da atmosfera lúgubre, fantasmas não surgiam de repente dos cantos escuros, não se ouviam gritos desesperados ou ruídos de correntes se arrastando. Trata-se de um belo castelo, outrora impávido defensor dos habitantes, mas apenas um castelo… Uma hora depois, achava-me num restaurante na via Immacolata comendo linguine ai frutti di mare, acompanhado por duas taças de Greco del Sannio.

A excelente refeição, e talvez principalmente o arrebatamento provocado pela alma do vinho, compensaram meu desencanto e decidi caminhar ao léu, melhor maneira de nos surpreender quando em terra estranha. Bastaram, entretanto, alguns passos e me vi em frente à catedral de Santa Maria Annuziata, uma igreja do século XI, cujo piso é formado por inacreditável mosaico do século XII representando os signos do zodíaco, algo inusitado para um templo católico. Ali, demorei-me, extasiado com os afrescos bizantinos e com a capela dedicada aos mártires de Otranto, assassinados no século XV, quando da tomada da cidade pelos turcos. Ao sair, enlevado por tanta beleza, senti necessidade de beber algo, a temperatura seguramente passava dos trinta graus.

Entrei distraído no Caffè degli Amici, no corso Garibaldi, e de imediato uma amável voz masculina irrompeu do interior penumbroso, Buongiorno, amico! Respondi ao cumprimento, mencionei o calor e perguntei o que poderia me oferecer para matar a sede e refrescar a garganta. Ele sugeriu granata spremuta, que aceitei sem pestanejar, e indicou uma mesa. Enquanto aguardava o suco de romã, notei, por detrás da caixa-registradora, uma pequena bandeira do Brasil, que, embora emoldurada e envidraçada, mostrava claros sinais de deterioramento. Fiquei tão surpreso que, não me contendo, desloquei-me até o balcão e, apontando para o quadro na parede, indaguei: Desculpe, mas aquela bandeira do Brasil…

O homem, que devia estar por volta dos sessenta anos, cabelos crespos agrisalhados, pele moreno-escura, olhos pretos, um tipo não muito diferente dos demais habitantes daquela parte da Itália, sorriu e disse: Ora, sou brasileiro, capisci?! Também eu, falei, entusiasmado, como raramente me sinto, Dório, meu nome, podemos conversar em português? Apertando minha mão, ele disse, em português, Sebastiano, muito prazer! E, na sequência, em italiano, Infelizmente, eu não sei mais falar português, antes eu sabia um pouco, mas, como não tinha com quem praticar, esqueci… Só recordo palavras soltas e uma ou outra frase, obrigado, até amanhã, sossega leão… Mas o senhor não é brasileiro?!, interroguei, e ele continuou, Não, sou italiano, cresci aqui em Otranto… Meu pai é que era brasileiro… Da Bahia… Desculpe a indiscrição, mas como ele veio parar em Otranto?, indaguei. Ah, uma longa história, ele suspirou, e, talvez porque não havia, naquele momento, mais ninguém no lugar, completou, Já passou tanto tempo, só os mais velhos ainda lembram do meu pai, ele se tornou cidadão conhecido e estimado, mas no começo enfrentou muito preconceito, negro, estrangeiro, não falava italiano… Enfim, uma história comprida, que remonta à época da guerra…

Dei a entender que não me importava de ouvi-la e Sebastiano, satisfeito, contou-a.
– Natalício Silvino, meu pai, era um homem bonito, elegante, simpático. Tinha imenso prazer em conversar, e, embora até o fim da vida falasse mal o italiano, falava melhor o dialeto, todos os que o ouviam ficavam encantados com seus modos agradáveis e envolventes. Chamava todo mundo de amico, tanto que, com o tempo, trocou o nome do caffè, adquirido como Il Piccolo Caffè di Luigi, para Caffè degli Amici, porque realmente considerava todos os frequentadores amigos. No entanto, sobre alguns assuntos recusava-se a discutir, política, futebol e, mais que tudo, detalhes do seu passado. O pouco que sei deve-se à memória da minha mãe, que graças a Deus ainda vive, a quem ele confiou uma coisa e outra. Só para ter uma ideia, meu nome é Sebastiano para homenagear o meu avô, mas essa é a única informação que tenho a respeito da família do meu pai, além de que eram camponeses muito pobres num lugar chamado Sant’Anna[1]. Ebbene, aos vinte anos ele foi convocado para a guerra. Depois de receber instruções militares básicas na Bahia, São Paulo e Rio de Janeiro, quando, aliás, aprendeu a dirigir, desembarcou em Nápoles, em julho de mil novecentos e quarenta e quatro. Meu pai foi designado para motorista de um jipe, que apelidaram de Chiquinho[2], que, além de servir para deslocamentos de um oficial, utilizavam para comunicação entre a linha de frente e a retaguarda. Ele esteve presente nos primeiros combates dos pracinhas[3] – é assim que se diz, não? – perto de Lucca, onde também sofreram as primeiras baixas durante um contra-ataque dos nazistas. Depois, seguiu transferido para o front perto de Pistoia. Minha mãe lembra do meu pai reclamando do inverno, quase vinte graus abaixo de zero, dormia numa espécie de cama-saco em cima da neve mesmo, embrulhava os pés com feno dentro da bota para evitar que gangrenassem. Ele desenvolveu verdadeira ojeriza ao frio, só não se agasalhava no verão, que aqui, como o senhor pode sentir, é brutal. Nesse local onde estavam entrincheirados havia uma ponte – de um lado os aliados, do outro, no alto da montanha, os alemães, e o objetivo era desalojá-los. Em dezembro, após uma batalha violenta, em que as tropas brasileiras sofreram muitas baixas, meu pai não aguentou. O frio extremo, o barulho da artilharia, os gritos dos feridos pelos morteiros, os cadáveres amontoados, tudo isso parece ter contribuído para que meu pai sofresse um colapso nervoso. Então, ele decidiu fugir. Se o senhor conhecesse meu pai, homem pacífico e cumpridor das leis, não acreditaria que fosse capaz de tamanha imprudência. Sabia que corria risco de ser preso e submetido à corte marcial, mas o estado de pânico em que se encontrava ofuscava o temor às possíveis consequências da retirada. De madrugada, pegou o jipe com o tanque cheio, e mais dois galões de gasolina escondidos sob uma lona, e rumou para o sul, na esperança de alcançar Nápoles e achar alguém disposto a ajudá-lo a regressar ao Brasil. Assim, sem mapa, sem bússola, contando apenas com a intuição, meu pai veio descendo, sempre evitando as estradas principais. Minha mãe comentava que ele ficou horrorizado com o que viu, campos calcinados, cidades e vilarejos destruídos, crianças revirando lixo em busca de comida, mulheres oferecendo-se em troca de barras de chocolate, velhos e velhas abrigando-se atrás de paredes em ruínas de casas sem teto. Sem perceber, afundando em vias enlameadas e sob uma chuva incessante, meu pai desviou-se mais e mais para leste. Até que, num determinado momento, o combustível chegou ao fim e ele teve que continuar a jornada a pé. Na antevéspera do Natal, Cataldo Mazzotta, que viria a ser meu avô, encontrou meu pai caído, meio inconsciente, no leito da estrada comunal, perto de Serrano, magro e imundo, e, embora receoso, afinal tratava-se de um forister, um forasteiro, vestido com um uniforme desconhecido, e ainda por cima una pèrsone negre, resolveu socorrê-lo. Agasalhou-o em sacos de aniagem, deu-lhe vinho para beber, azeitonas para comer, enfiou-o na boleia do caminhãozinho Fiat e descarregou-o na fagna[4] da casa onde morava, em Cannole. Ali, permaneceu por alguns dias, aos cuidados daquela que se tornou minha mãe, Caterina, que, confessava, na época morria de medo do meu pai, entregava o prato fumegante de sopa rala – única refeição, comum a todos – e saía correndo. Nònne Cataldo era um homem amargo, mas generoso. Havia perdido os dois filhos-homens para a guerra – Nicola, durante a invasão do Egito, em dezembro de mil novecentos e quarenta, e Donato, na Grécia, um ano depois – e a esposa, a nonna Filomena, morrera naquele outono, de desgosto. Quando recuperou a saúde, meu pai passou a auxiliar o nònne na labuta, que consistia em comprar o pouco azeite ainda produzido nos campos adjacentes e tentar revender em Otranto. Ele nunca questionou meu pai sobre o passado – aceitou-o como uma apparizzióne, algo inexplicável que vinha, de certa maneira, ampará-lo na velhice, substituindo seus dois pranteados filhos. Assim, nem quando minha mãe, que, sem perceber, pouco a pouco apaixonou-se por meu pai, comunicou que estava grávida, ele se abalou. Aqueles eram tempos difíceis, estranhos, e, pragmático, entendeu que minha mãe dificilmente arranjaria marido melhor, inclusive porque os homens ou estavam mortos, ou aleijados, ou loucos, ou desaparecidos. Além do que, a simples presença do meu pai ajudava no negócio, pois muitos o procuravam atraídos pelo ‘exotismo’ que ele representava. Meu nònne aborreceu-se apenas quando meu pai esquivou-se de casar oficialmente com minha mãe, por não ter documentos, sonhava entrar orgulhoso na igreja de Maria Santissima Madre di Dio de braços dados com a filha, exibindo-se para a comuna. Mas, logo conformou-se, naquela época o que mais havia eram mães solteiras, a miséria sobrepujava qualquer possibilidade de julgamento moral. E compensou ainda mais sua frustração o meu nascimento, em catorze de setembro de mil novecentos e quarenta e seis, porque, em meio à carência de tudo, ele conseguiu dar uma pequena festa para marcar a cerimônia de meu batizado. Ebbene, para não estender mais essa história, que já vai longa, paulatinamente a vida no pós-guerra ia se normalizando, mas meu nònne, muito teimoso, não admitia que ninguém se intrometesse nos rumos de suas atividades, não conseguia adaptar-se aos novos tempos. Além disso, sua saúde frágil, fora gaseado na Grande Guerra, piorara muito devido à falta de comida, agasalho e remédios. Percebendo isso, e preocupado em fixar de vez meu pai na terra – no fundo, ainda temia que ele quisesse regressar ao Brasil –, adquiriu este café, que permanecia fechado desde a chegada dos aliados à região, deu de presente à minha mãe, e morreu menos de um ano depois. No começo, poucos entravam aqui, por preconceito mesmo. Meu pai postava-se à porta e cumprimentava, em dialeto, todas as pessoas que passavam, Bunj’orn, sinnò! Bunj’orn, signore! Bunj’orn, signurinna! Bunj’orn, amiche! Devagar, carismático, conquistou toda a vizinhança. Primeiro, vieram os raghe, os jovens, depois, os vecchjaru, os velhos. Cresci entre essas mesas e cadeiras, mimado pelos fregueses, auxiliando meu pai, que, infelizmente, partiu cedo, aos cinquenta e dois anos, infarto fulminante. Assumi o negócio, casei, minha esposa se chama Simona, enfermeira na Misericordia, e temos um casal de filhos, Laura e Cataldo, homenagem ao nonnè – Laura vive em Roma, trabalha em produção de cinema de publicidade, e Cataldo possui oficina mecânica em Uggiano La Chiesa. Ebbene, aquela bandeira do Brasil encontrei no fundo de um baú que guardava coisas do meu pai na casa do nònne, em Cannole. Emoldurei e pendurei aqui, forma de sempre lembrar dele, um homem admirável... Acredita que meu pai tinha tanto medo de ser apanhado que nunca saiu de Otranto? Segundo minha mãe, ele dizia que tudo que importava para ele encontrava-se aqui, família, amigos. Nunca entrou em contato com ninguém do Brasil – devem achar que ele morreu no campo de batalha… Melhor assim, o senhor não acha?

Respondi que sim, pedi outra granatra spremutta, e me sentei, observando os vecchjaru que, cumprimentando Sebastiano com animação, entravam em grupo para tomar café e conversar fiado naquele fim de tarde de verão. 

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[1] Há, pelo menos, três cidades com esse nome na Bahia: Santana, Feira de Santana e Riacho de Santana.
[2] Creio ser esse o apelido do jipe, que Sebastiano pronunciou Scicchigno ou algo parecido.
[3] O quer ela falou era ininteligível, mas, com certeza, queria dizer pracinha.
[4] Palavra do dialeto salentino, que, pelo contexto, creio tratar-se de um celeiro ou paiol.


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Luiz Ruffato – Nasceu em Cataguases (MG), em 1961. Publicou, entre outros, os romances Eles eram muitos cavalos, Inferno provisório, De mim já nem se lembra, Estive em Lisboa e lembrei de você, Flores artificiais, O verão tardio e O antigo futuro. Seus livros receberam prêmios nacionais (Machado de Assis, APCA e Jabuti) e internacionais (Casa de las Américas, em Cuba). Foi escritor-residente na universidade de Berkeley (EUA) em 2012, e ganhou os prêmios Escritor Galego Universal (na Galiza, em 2015) e Hermann Hesse (na Alemanha, em 2016). Sua obra está publicada em 15 países.