Raffaello Gambogi: Gli Emigranti (1894). Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno, Italia
	 
	Cogli occhi spenti, con lo guancie cave,
	Pallidi, in atto addolorato e grave,
	Sorreggendo le donne affrante e smorte,
	Ascendono la nave
	Come s’ascende il palco de la morte.
	E ognun sul petto trepido si serra
	Tutto quel che possiede su la terra.
	Altri un misero involto, altri un patito
	Bimbo, che gli s’afferra
	Al collo, dalle immense acque atterrito.
	Salgono in lunga fila, umili e muti,
	E sopra i volti appar bruni e sparuti
	Umido ancora il desolato affanno
	Degli estremi saluti
	Dati ai monti che più non rivedranno.
	 
	Salgono, e ognuno la pupilla mesta
	Sulla ricca e gentil Genova arresta,
	Intento in atto di stupor profondo,
	Come sopra una festa
	Fisserebbe lo sguardo un moribondo.
	Ammonticchiati là come giumenti
	Sulla gelida prua morsa dai venti,
	Migrano a terre inospiti e lontane;
	Laceri e macilenti,
	Varcano i mari per cercar del pane.
	Traditi da un mercante menzognero,
	Vanno, oggetto di scherno allo straniero,
	Bestie da soma, dispregiati iloti,
	Carne da cimitero,
	Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.
	Vanno, ignari di tutto, ove li porta
	La fame, in terre ove altra gente è morta;
	Come il pezzente cieco o vagabondo
	Erra di porta in porta,
	Essi così vanno di mondo in mondo.
	 
	Vanno coi figli come un gran tesoro
	Celando in petto una moneta d’oro,
	Frutto segreto d’infiniti stonti,
	E le donne con loro,
	Istupidite martiri piangenti.
	Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora
	Il suol che li rifiuta amano ancora;
	L’amano ancora il maledetto suolo
	Che i figli suoi divora,
	Dove sudano mille e campa un solo.
	E li han nel core in quei solenni istanti
	I bei clivi di allegre acque sonanti,
	E le chiesette candide, e i pacati
	Laghi cinti di piante,
	E i villaggi tranquilli ove son nati!
	E ognuno forse sprigionando un grido,
	Se lo potesse, tornerebbe al lido;
	Tornerebbe a morir sopra i nativi
	Monti, nel triste nido
	Dove piangono i suoi vecchi malvivi.
	 
	Addio, poveri vecchi! In men d’un anno
	Rosi dalla miseria e dall’affanno,
	Forse morrete là senza compianto,
	E i figli nol sapranno,
	E andrete ignudi e soli al camposanto.
	Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora
	Dai muti clivi che il tramonto indora
	La man levate i figli a benedire….
	Benediteli ancora:
	Tutti vanno a soffrir, molti a morire.
	Ecco il naviglio maestoso e lento
	Salpa, Genova gira, alita il vento.
	Sul vago lido si distende un velo,
	E il drappello sgomento
	Solleva un grido desolato al cielo.
	Chi al lido che dispar tende le braccia.
	Chi nell’involto suo china la faccia,
	Chi versando un’amara onda dagli occhi
	La sua compagna abbraccia,
	Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.
	 
	E il naviglio s’affretta, e il giorno muore,
	E un suon di pianti e d’urli di dolore
	Vagamente confuso al suon dell’onda
	Viene a morir nel core
	De la folla che guarda da la sponda.
	Addio, fratelli! Addio, turba dolente!
	Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente,
	V’allieti il sole il misero viaggio;
	Addio, povera gente,
	Datevi pace e fatevi coraggio.
	Stringete il nodo dei fraterni affetti.
	Riparate dal freddo i fanciulletti ,
	Dividetevi i cenci, i soldi, il pane,
	Sfidate uniti e stretti
	L’imperversar de le sciagure umane.
	E Iddio vi faccia rivarcar quei mari,
	E tornare ai villaggi umili e cari,
	E ritrovare ancor de le deserte
	Case sui limitari
	I vostri vecchi con le braccia aperte.
	 
	 
	 
 
 
Poesie. Milano, Fratelli Treves Editori. 1882