Cosa resta di Cabiria?
Cássia Costa Lopes
TESTO IN ITALIANO (Texto em português)Federico Fellini (1920-1993) non ci ha lasciato soltanto film indimenticabili, ma ha trasmesso soprattutto il sapore di liberazione della potenza che nasce dal resto delle esistenze umane, davanti alle rovine del nostro tempo. L’affermazione può sembrare vaga se non contestualizziamo i motivi che fermentano tale constatazione e orientano la scrittura di questo saggio. A tal fine, sceglieremo la protagonista femminile del film del 1957 “Le notti di Cabiria”, la cui interprete è Giulietta Masina, moglie del cineasta italiano. Tale film le ha consegnato la Palma d’Oro come miglior attrice a Cannes, e ha conquistato l’Oscar come miglior film straniero.
Discorrendo dell’impossibilità di classificare i grandi creatori, Federico Fellini rivela a se stesso: “Ma è un assurdo volerli differenziare tra comici e filosofi, attori e autori, pagliacci e poeti, pittori e cineasti”
[i]. (FELLINI, 1983, p. 53, traduzione nostra) Nel mezzo di questa riflessione, quando il criterio di classificazione si rivela riduttivo, il regista si ricorda di Toulouse Lautrec come di un amico, come di un esempio illustrativo nella sua dichiarazione: “[...] perché ha previsto le immagini del cinema prima che i fratelli Lumière inventassero il cinematografo, forse perché si sentiva continuamente attratto dai diseredati e dagli sventurati, da coloro i quali le persone ‘rispettabili’ consideravano dei depravati”
[ii]. (FELLINI, 1983, p. 53-54, traduzione nostra). La simpatia del cineasta italiano nei confronti del pittore francese può essere compresa attraverso la scelta di Fellini riguardo al destino e alle sventure del personaggio di Cabiria.
Malgrado ritragga l’Italia devastata dalla Seconda Guerra Mondiale a 12 anni dalla fine del conflitto, “Le Notti di Cabiria” espone l’atmosfera di desolazione in una prospettiva che oltrepassa la mera dimensione territoriale, con echi degli orrori praticati da Mussolini e dai suoi seguaci fascisti. Si osservano altre forme di abbandono rese esplicite dal personaggio centrale, peregrino di altre frontiere del linguaggio, in dialogo con lo scenario contemporaneo, al di là del cinema neorealista. Si tratta di una prostituta che abita alla periferia di Roma, in una zona inospitale la cui materialità dello scenario, di per sé, ritrae la quotidianità del personaggio: la casa acquisita con molto sforzo e con lunghe notti di fatica si limita ad una costruzione con un unico vano, ad una scatola di cemento nel mezzo di una terra arida, immagine che è sintesi del mondo di Cabiria e delle sue vicine, paesaggio sprovvisto di illusioni e fantasie.
GLI INGANNI DI CABIRIA
Malgrado si percepisca una certa curva drammaturgica nel copione della pellicola, il suo tenore si avvicina a quello di un film episodico. La narrativa di Cabiria potrebbe essere riassunta in una successione di inganni amorosi, in una semplificazione economica di dati biografici, forse proprio per questo problematica al fine di contestualizzare la complessità del personaggio. Nella prima scena del film si schiude lo scambio di baci tra gli amanti, ma l’atmosfera romantica si dissolve quando la protagonista viene gettata in un fiume dal proprio fidanzato. È letteralmente travolta dalla corrente delle acque. Potrebbe morire, se non fosse per l’azione generosa di alcuni bambini che la salvano dall’annegamento. Immersa nell’agonia e nel disincanto, la protagonista non riesce a credere al gesto di quell’uomo da cui reputava di essere amata. Nel frattempo, può constatare il motivo di ciò che è accaduto: l’interesse nei confronti della sua borsa, in cui si trovavano 40 mila lire.
Per quanto Cabiria tenti di rifugiarsi nelle promesse dell’amore, sembra sempre destinata al fallimento amoroso, a camminare lungo i marciapiedi e lungo le notti di Roma.
A partire da tale scena iniziale, sono vari gli episodi presentati riguardanti il modo in cui Cabiria vive il proprio quotidiano di meretrice, col suo carattere sempre aperto ed incompiuto. Ogni uomo con cui va a letto reca alla protagonista la massima insicurezza quotidiana, l’incertezza come unica certezza, ma ci rivela un essere che non è inaccessibilmente chiuso in se stesso, che non si ripara nel sé. Il suo mestiere esige che sia aperta alle circostanze, agli avvenimenti, quando qualcuno potrà giungere inaspettato a sollecitare i suoi servizi. Se la notte non le consegna l’oblio del giorno nel sonno dell’alba, notiamo che nello scambio tra piacere e denaro, nella relazione col corpo della meretrice, traspaiono multiple sfaccettature umane, coi loro piani psicologici e sociali, e con gli echi degli incubi e dei sogni di molte altre donne.
Trasportata dalla nebbia della sua routine, la protagonista intravede la luce indecisa di un night elegante, luogo destinato all’intrattenimento dei più benestanti. Si imbatte nello sguardo di soppiatto del vigilante del locale notturno, che sembra suggerirle quanto strana sia in quel mondo la cui parola d’ordine è ignota. Nel mezzo di tale quadro imbarazzante, assiste ad un conflitto tra un uomo e una donna: il famoso attore Alberto Nazzari, interpretato da Amedeo Nazzari, e la sua fidanzata Jessy, interpretata da Dorian Gray. La scena osservata è incredibile, soprattutto perché l’attore invita Cabiria ad addentrarsi in un’auto di lusso e la conduce nella propria magione, in uno spazio opposto al suo habitat, arredato con un livello di sofisticatezza impossibile per il mondo abitato dalla meretrice. È uno scontro di classi, di modi di esistere, ma ciò non funge da ostacolo per l’incontro stabilito dal caso, se non fosse per l’arrivo inaspettato della fidanzata Jessy, che spinge Cabiria a nascondersi nel bagno dell’alcova e a trascorrere la notte assieme al cane di casa. Il sogno si è dissolto, e reca con sé un mattino disadorno di incanti. Ancora una volta, il personaggio si trova nel mezzo della propria solitudine e desolazione.
In contrasto con ciò, un altro episodio mostra la prostituta mentre entra in un camion guidato da un uomo qualsiasi, da un cliente sprovvisto di risorse economiche, senza sapere quale strada la attenda. Dopo l’incontro è abbandonata in un terreno incolto in cui vivono dei diseredati, dei mendicanti che si nascondono in pertugi, in piccole grotte in cui si proteggono dal freddo e dagli sguardi altrui. Nella scena, la protagonista osserva un uomo che distribuisce alimenti; è una persona definita caritatevole, la cui pratica sembra essere riconosciuta da coloro i quali hanno bisogno d’aiuto, ma anche da Fellini e dalla sua visione di cristianesimo:
“Cristiano, cosa vuol dire? Se per cristiano si intende un atteggiamento d’amore per il prossimo, sembra che... sì, tutti i miei film hanno come filo conduttore quest’idea. C’è un tentativo di raccontare un mondo senza amore, personaggi pieni di egoismo, persone che sfruttano gli altri, e in questo panorama così ‘belluino’ c’è sempre un piccolo essere, specialmente nei film con Giulietta, che vuol dare amore e che vive per l’amore.”
[iii](FELLINI, 1983, p. 54, traduzione nostra)
Sebbene il cineasta ponga in risalto tale aspetto cristiano del suo personaggio inscritto in “Le Notti di Cabiria”, c’è, in Fellini, una vocazione a pensare il cristianesimo al di là dei dogmi. Esiste la presenza del cristianesimo in una pratica religiosa che eccede gli aspetti dogmatici, poiché l’eresia sembra orientare i suoi film: “Credo in Gesù: che non è solo il più grande personaggio dell’umanità, ma che continua a sopravvivere nell’essere che si sacrifica per il suo prossimo. Sono ignorante per quanto riguarda i dogmi cattolici. Forse sono un eretico.”
[iv] (FELLINI, 1983, p. 55, traduzione nostra) Dentro questa cornice di credenze vediamo Cabiria, mentre accompagna una processione per le vie di Roma, chiedere alla Vergine Santissima che cambi la direzione dei suoi giorni. La scena della prostituta che prega ai piedi della Santa enfatizza l’abbandono del personaggio, le sue angosce, in un gesto che denuncia i suoi desideri più intimi. Quanto a questo tema, il cineasta commenta: “Il mio cristianesimo è rozzo. Non pratico i sacramenti, ma penso che la preghiera possa essere considerata una ginnastica che ci condurrebbe sempre più vicini al soprannaturale”
[v]. (FELLINI, 1983, p. 55, traduzione nostra)
L’episodio successivo del film, ciò malgrado, smonta completamente tale idea di salvezza. Dopo la preghiera destinata alla Vergine Maria, ci imbattiamo nel personaggio interpretato da Giulietta Masina nel mezzo di una scena emozionante: entra in un teatro di varietà e incontra un mago che sul palcoscenico esercita l’ipnosi come una delle proprie attività ludiche. Invitata dal professionista, Cabiria sale sul palco e si lascia ipnotizzare. Tramite tale gesto, esibisce le proprie fantasie amorose e l’enorme desiderio di essere amata. Tutta la sua innocenza viene esposta dinanzi alla platea, dove siede Oscar, un opportunista che vede nella ragazza una preda facile per una truffa, considerati i suoi sogni romantici: quello di una promessa di matrimonio e quello del grande amore. Si avvicina a Cabiria e, a partire dalle aspettative da lei esternate sul palco, costruisce tutta una narrativa che la seduce.
E nel desiderio sostenuto dalla fantasia di essere amata, lei si lascia ingannare ancora una volta, e la scena si ripete. Vende la casa in cui custodiva la propria memoria, lo specchio in cui si contemplava ogni mattino. Fa le valigie e va incontro all’amato con l’intero ricavato della vendita dei propri beni. In un ristorante, impersonando la maschera del cavaliere, Oscar non le lascia pagare il conto e la invita a passeggiare in un bosco. Lei si fida, lascia le valigie sul posto e i due si addentrano in un cammino che sfocia, letteralmente, in un abisso nel quale l’uomo intende spingerla. Soltanto sull’orlo di quel precipizio Cabiria presente l’intenzione del fidanzato di ucciderla: gridando, lo implora di porre fine alla sua esistenza, ma sente che gli interessa solo il denaro. E si ripete la stessa scena iniziale del film. Una ripetizione con una differenza significativa: ancora una volta un uomo cerca di ucciderla, facendosi passare per un innamorato, e fugge con la sua borsa, ma questa volta non la spinge nel precipizio. Scappa con tutti i risparmi di Cabiria, col risultato di anni di lavoro. Stupefatta di fronte all’accaduto, la protagonista rimane viva, aperta ad un cammino sconosciuto, senza nessun tipo di aspettativa. Per quanto riguarda tale finale, il cineasta commenta:
“I miei film, al contrario, danno allo spettatore una responsabilità molto specifica. Saranno loro, ad esempio, a dover decidere quale sarà la fine di Cabiria. La sorte di Cabiria è nelle mani di ciascuno di noi. Se il film ci ha emozionati, ci ha turbati, dobbiamo immediatamente, a partire dal primo incontro coi nostri amici, o con la nostra moglie (perché chiunque può essere Cabiria, cioè una vittima), dobbiamo cominciare a mantenere relazioni nuove col nostro prossimo. Se film come I Vitelloni, La Strada, Il Bidone, lasciano nello spettatore questa emozione mescolata ad un lieve malessere, penso che abbiano raggiunto il proprio obiettivo. Sento e posso proprio affermare ora, senza esitazione, che tutte le storie che immagino sono fatte per rappresentare un’inquietudine, uno sconforto, uno stato di attrito nelle relazioni che dovrebbero essere normali tra le persone. Definitivamente, coi miei film non voglio dire niente al di fuori del fatto che, con maggior o minor ostinazione, dev’esserci una maniera di migliorare le relazioni tra gli uomini”.
[vi] (FELLINI, 1983, p. 131, traduzione nostra)
IL SORRISO DI CABIRIA
Ma cosa resta di Cabiria dopo tutto ciò? L’ultima scena che segue tale episodio è cruciale per la costruzione di questo saggio. Quando il mondo sembra crollare, quando il suo progetto si rivela distrutto, la protagonista si vede condannata ad essere un resto umano, senza assolutamente nulla tra le mani. Stordita, senza nessun aggettivo che possa qualificare la sua esistenza, muove incontro alla propria nuda vita, al resto di sé. Torna indietro nel bosco, tra rumori d’alberi e di vento, fino a raggiungere una strada dove si imbatte, inaspettatamente, in alcuni bambini, le cui voci intonano una melodia che spinge Cabiria a muovere il corpo, in un impulso unico di vita. Secondo lo stesso Fellini, “Cabiria, la mia ultima figura, ancora fragile, sventurata e tenera dopo tante sventure e dopo il fallimento del suo ingenuo amore, continua a credere nell’amore e nella vita.”
[vii] (FELLINI, 1983, p. 62, traduzione nostra) Nasce un abbozzo di sorriso nel volto di questa donna, tra le rovine di se stessa. Il personaggio, coinvolto e avvolto dai ritmi, produce il riso sul proprio volto, ma cosa significa questo gesto di Cabiria? Il suo viso soleggiato in mezzo ad ogni cosa?
Tuttavia, non esiste una salvezza trascendentale per il personaggio di Cabiria. Neppure tale riso sarebbe sinonimo di speranza, poiché questa si appoggia ancora ad un’idea di tempo futuro, mentre ciò che notiamo è più l’affermazione del presente, il divenire-io nell’istante, e non i giorni venturi. Il film di Fellini non è una debole apologia della speranza. Se il personaggio non rinuncia alla vita è in virtù della vita stessa che resta, che la sospinge. Rimane solo l’amore a nascere dal proprio resto, ma non è l’amore per qualcuno: Cabiria non ha nessuno da amare; è orfana, non ha figli, né parenti, né ideali a cui consacrarsi, non ha nessuno in particolare, se non la compagna di prostituzione da cui si è congedata senza nessun dolore. In sintesi, ciò che resta a Cabiria è una forza che la muove, presente nella sua vita dequalificata, ma pulsante nella melodia cantata dai bambini per strada.
In questa scena estrema, se l’elemento musicale traduce la presenza di Dioniso, il suo principio di dissociazione dell’io, assume anche una funzione importantissima per la conclusione o per l’apertura della narrativa di Cabiria. Qui la vita è soltanto voce; essa non parla specificamente a nome di qualcuno, ma entra in altri giochi di solidarietà, non ristretti agli umani: sono i rumori del bosco, inseparabili dalla musica e dalle voci dei bambini. Cantando e danzando come parte di una comunità, “[...] l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé”
[viii]. (NIETZSCHE, 1972, p. 25) Anche l’uomo è un’opera d’arte collettiva, quando emerge l’oblio di una soggettività accentratrice, carica di individuazione. Questo era il ruolo dei cori bacchici e delle feste orgiastiche: produrre un legame con la natura, con i bambini e con gli esseri umani. Quanto a tale scena, Federico Fellini chiarisce: “Un’esplosione lirica in musica, una canzone cantata nel bosco, chiude un film così tragico perché, nonostante tutto, Cabiria porta nel cuore il segreto di una grazia scoperta. E non si tratta di cercare di definire la natura di tale grazia”.
[ix] (FELLINI, 1983, p. 131) Bene, la nostra questione consiste esattamente nel pensare a questo “nonostante tutto” come ad una categoria estetica e filosofica, suggerita da Fellini nel suo film.
La narrativa tragica di Cabiria sembra recare nelle proprie viscere la problematica esistenziale basilare: la maniera con cui l’uomo risponde alla sofferenza, al dolore, con tutta una critica al pensiero ascetico. Se pensiamo, assieme a Nietzsche, al motivo per cui i greci hanno prodotto gli dèi olimpici o la tragedia, se ciò è stato per rendere la vita possibile o desiderabile e per offrire al mondo una sovrabbondanza di vita, cosa fa Fellini nel suo film? La sua arte è un modo di reagire al pensiero pessimista puro di chi annichila e paralizza la vita e, perciò, assimila il tragico? I passaggi felliniani instaurano un pessimismo al di là del bene e del male, contro la significazione morale dell’esistenza, costruendo una riflessione sul valore della vita stessa, in una critica ad un’omologazione risentita della prassi umana.
Nella scena finale del film avviene la valorizzazione artistica della vita, refrattaria al concetto morale di esistenza, ai paradigmi modulati dalla coppia esatto/errato; errore, esattezza. La vita si giustifica come fenomeno estetico: la vita come opera d’arte, ma l’estetica non è soggiogata dalla ragione. Con l’arte musicale di Dioniso, apprendiamo da Nietzsche che esiste il pericolo di rimanere sull’orlo dell’abisso, del precipizio, ma il bambino accetta di rimanervi per piacere, gioca col precipizio perché abbonda di giovialità, abbonda di forza. Se Dioniso puro è un veleno, dato che può causare l’annichilimento della vita, l’arte sorge come forza che trasfigura il veleno in rimedio. La nostra questione è esattamente la seguente: come trasformare la nuda vita, il resto di una vita, come convertire il veleno in antidoto, in rimedio. Ad una prima lettura veloce, il film ci incita a pensare che Cabiria sia solo una sopravvivente, poiché emerge come soggetto residuale, come straccio umano alla mercè della nuda vita. Ciò malgrado, il film indica un altro aspetto: quello in cui la nuda vita reca in se stessa l’antidoto contro la nullificazione, cosciente del fatto che: “La nostra politica non conosce oggi altro valore (e, conseguentemente, altro disvalore) che la vita”
[x]. (AGAMBEN, 2005, p. 13-14)
Così, il resto di Cabiria è ciò che si trova in ogni parte del corpo biopolitico, un corpo che esiste in uno spazio soggettivo inseparabile dallo spazio politico, un punto nel quale la servitù volontaria, davanti agli uomini e agli dèi, comunica con ciò che vi è di più inerme e vuoto nella nuda vita, in una critica a qualsiasi regime totalitario. Il lavoro di Cabiria è svolto mediante il corpo, ed è esattamente in esso che ha luogo l’investimento del controllo e dello sfruttamento. Allargando tale ottica alle rovine della storia di ciascuno e del mondo, Giorgio Agamben apporta un contributo fecondo a tale tema della vita e della sua nudità nel suo libro “Homo Sacer: il potere sovrano e la nuda vita”, importante per leggere il film scelto nella presente analisi.
Secondo il filosofo italiano, i greci non usavano un unico termine per significare la vita, ma erano soliti differenziarla tra
zoḗ, che esprime il “[...] semplice fatto di vivere comune a tutti gli essere viventi (animali, uomini o dèi) e
bíos, che indicava la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo”. (AGAMBEN, 2005, p. 3, corsivo dell’autore) Se per i greci pensare alla
zoḗ politica sarebbe stato impossibile, lo stesso non accade nella contemporaneità: una semplice vita, o vita naturale, può recare con sé un forte elemento di resistenza e di trasformazione politica; è ciò che dichiara Agamben quando esplicita la lucidità di Aristotele: “[...] la maggior parte degli uomini sopporta molti patimenti e si attacca alla vita (
zoḗ), come se vi fosse in essa una sorta di serenità (
euēmería, bella giornata) e una dolcezza naturale.”. (AGAMBEN, 2005 p. 4, corsivo dell’autore)
Se nel mondo classico la semplice vita naturale, il corpo con le sue forze, è rimossa tramite un processo di polarizzazioni e dicotomie, il cinema felliniano ci offre l’opportunità di rivedere tali termini. La chiave consiste nel leggere la grazia vissuta da Cabiria alla fine di tutto e di tutte le sue perdite, come un transito, come un limbo tra la nuda vita, dequalificata nel suo resto più intenso, e la vita qualificata (
bíos), politicizzata. Ciò che resta in Cabiria, paradossalmente, è il carattere indistruttibile dopo tutta la distruzione, sono le rovine di sé che resistono a qualsiasi sfruttamento, uso ed abuso da parte delle persone e degli uomini, a qualsiasi manipolazione sociale. Si nota un altro modo di definire la resistenza, fuori dal gioco oppositivo: resistere non è opporsi ad un sistema, a qualcuno di specifico, bensì la resistenza è potenza di vita; è ciò che Nietzsche ha appreso dal mondo ellenico: è creazione, è arte. La natura si esprime attraverso una via simbolica. Un simbolismo corporeo fatto di movimenti ritmici; si esteriorizza nel filone lirico di una voce senza padrone.
Questo è ciò che ci rivela il film di Fellini. Ciò che resta è esattamente quello che nessuno potrà distruggere, la forza disseminata nella melodia cantata dai bambini, una vita intensificata che ci impone una sospensione nel tempo presente, lontano dai dispositivi di potere inscritti nel futuro. In questo caso, l’avvenire pone la vita come un enorme incubo, sotto le minacce della morte e dell’infortunio. Con Nietzsche, siamo passati a pensare alla tragedia a partire dallo spirito della musica, secondo i rituali di Dioniso. Così, attraverso il coro: “[…] la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa”. (NIETZSCHE, 1972, p. 54) Con riferimento a ciò, Fellini offre la musica e il suo potere di sospensione lirica che libera l’uomo dalle catene e fa in modo che costui si lasci condurre dalla strada del presente. Per quanto riguarda questa prospettiva, cito lo stesso Fellini:
“Quando, nelle pellicole, la carica lirica di ispirazione, che è sempre un atto d’amore, mi permette di abbozzare un sorriso davanti ad un volto in lacrime, di tendere la mano a chi sta per perdersi, di indicare un cammino a chi si è perso, di offrire un ideale a chi ha sognato soltanto fantasmi, quando riesco a separare le avventure della vita ed i suoi inganni, rimango con l’impressione di non aver tradito nessuno, di aver fatto del bene, a me prima che agli altri. I miei film non si orientano secondo la logica del copione, ma in una dimensione di amore.”
[xi](FELLINI, 1983, p. 62, traduzione nostra)
Plasmata nella scena lirica, la musica traduce l’innominabile, dopo tante perdite, dopo tanto dolore! La libertà davanti a ciò che rimane si afferma nella voce lirica, poiché la dimensione del tempo cambia: non c’è più il futuro come dispositivo di controllo, con le sue prospettive e minacce di conflitto e di perdite. Ciò che resta della notte è quindi Cabiria. È una specie di nome proprio dato alla nuda vita come pura potenza di reinvenzione per un altro cammino che non è narrabile, biografabile; non può essere raccontata in episodi, perché oltrepassa il dicibile. C’è poesia, nonostante la sofferenza. Non a causa del dolore, bensì malgrado il dolore. Non è perché soffre, ma a dispetto di soffrire tutte le perdite, che non rinuncia a se stessa. Con Cabiria anche la vita è valida in se stessa, e l’uomo dovrà imparare a ridere. Come ha affermato Nietzsche: “Io ho santificato il riso; uomini superiori,
imparatemi – a ridere!”. (NIETZSCHE, 1972, p. 15, corsivo dell’autore) E Cabiria emette un potente “sì”!
Dopo la dissoluzione del mondo del personaggio felliniano, in cui nulla è rimasto intatto, resta da pensare, cos’è rimasto delle notti della meretrice? Pensarla appena come una sopravvivente può ricacciarla di nuovo verso una vita sopprimibile, non come resto, come ribellione della nuda vita in quanto potenza lirica. Tale è il ricorso usato da Fellini per trattare questo tema nel finale del film: è stato il lirismo, la poesia a germinare nel resto, come pura potenza di creazione che ha fatto sì che il personaggio di Cabiria divenisse l’abitante di una zona di possibilità. Ha perso ogni dignità. Le hanno tolto tutto, tranne la vita! Non erano solo gli uomini a penetrare il corpo di Cabiria, ma lo stesso potere, sottoforma di vita dequalificata. Ma non le hanno tolto il lirismo dopo la perdita di tutto, la poesia della strada. Se l’animalizzazione è un ricorso utilizzato dagli apparati del potere per depotenzializzare la vita umana, è questione di catturare la
zoḗ, la potenza animale esistente nell’umano. Ecco la forza del cinema felliniano! Si arriva alla soglia della nullificazione umana per incontrare, dinanzi a tale enorme vuoto, una forza capace di affermare l’esistenza. La poesia deflagra tra le rovine di Cabiria. La poesia che resta dopo un’Italia devastata dalla guerra:
“A mio avviso, la decadenza è la condizione indispensabile per la rinascita. Ho già detto di amare i naufragi. Mi sento quindi felice di vivere in un’epoca in cui tutto naufraga. È un’epoca meravigliosa, perché è il naufragio di una serie di ideologie, di concetti e di convenzioni. L’uomo è andato sulla luna, no? Quindi, parlare di bandiere, di frontiere e di monete differenti è totalmente assurdo. Bisogna modificare completamente tutto ciò. Credo che il processo di dissoluzione sarà completamente naturale. Non vedo in ciò il segno della morte della civiltà, ma, al contrario, (il segno) della sua vita. È la fine di una certa fase dell’umanità”.
[xii] (FELLINI, 1983, p. 136, traduzione nostra)
La scena finale del film non significa il declino di Cabiria. Il pensiero convenzionale afferma: uccidendo i suoi sogni, togliendole ogni illusione, rubandole tutto il denaro risparmiato durante giorni e notti di lavoro come meretrice, facendole perdere la casa, le abitudini e i beni, Cabiria è stata ridotta ad un relitto umano. Però, è in tale momento che acquisisce la sua potenza, un potere non equiparabile a quello costruito dagli apparati di Stato e dalle manovre della giustizia, ma al resto come possibilità di vita, del venire ad essere. Se gli apparati del potere si interessano alla
zoḗ, alla nuda vita, come maniera di controllarla, così come è accaduto nei confronti della sessualità descritta da Michel Foucault, ha senso pensare ad un’arte che mostra come la nuda vita diviene politica quando si esprime come resto, in un gioco complesso tra veleno e rimedio.
Se Cabiria rappresenta esattamente la nuda vita, che può essere sopprimibile, annichilata, è giustamente in tale nuda vita che incontra una certa libertà, una forza sulla quale nessuno metterà le proprie mani, un gesto senza padrone, ai margini. Una forza che non è narrabile, l’innominabile dinanzi al ricorso biografico, poiché non si assoggetta ad alcun tipo di logica legato alla vita convenzionale.
Malgrado Fellini non definisca il suo film come "impegnato", e disprezzi persino tale termine, ciò che si nota è una sensibilità nel pensare all’abbandono umano e alle rovine della storia di ciascun essere vivente, senza dimenticare le forze del corpo, in una specie di etica del resto, un’etica svincolata da una morale ideologica e teleologica di stampo salvazionista. È al di fuori di una coscienza morale che la vita esiste e si libera; è molto più che un apparato logocentrico, poiché coinvolge il movimento del corpo, il lirismo dell’arte di chi si lascia cullare dai venti, dalla musica e dal riso dei bambini. È l’efficacia di un’arte che potenzializza la vita, in quanto agente di creazione e reinvenzione di se stessi:
“Con buone intenzioni, con buoni sentimenti, con una fede appassionata nei propri ideali, senza dubbio si può fare una bella politica, un’opera sociale feconda – cose forse più utili del cinema – ma non necessariamente buoni film. E in fondo, non c’è nulla di più brutto e penoso, principalmente per il fatto di essere inutile e inefficace, di un film politico di cattiva qualità. L’essere impegnati, a mio avviso, impedisce lo sviluppo individuale. Il mio antifascismo è di ordine biologico”.
[xiii] (FELLINI, 1983, p. 131)
A proposito, in un disco dedicato a Fellini, Caetano Veloso ci presenta la canzone “Giulietta Masina”, conclusione ideale per questo saggio. Nei suoi versi, il cantante di Bahia dichiara: “Gulietta Masina/ Ah, puttana di un’altra panchina/ Ah, la mia vita solinga/ Ah, schermo di luce purissima/ Il nostro esistere, a cosa si destina”
[xiv]. (OMAGGIO..., 1999, traduzione nostra) Nei versi posti in evidenza si nota la nitida allusione al personaggio di Cabiria, come se fosse all’interno di ciascuno di noi. C’è un po’ di Cabiria in chiunque si senta inerme, nella nuda vita disadorna. Come dice il poeta, “sono palpebre di nebbia, pelle d’anima”
[xv] (traduzione nostra) in cui ci perdiamo, in cui ci mettiamo in questione. Come rovine di valori in una domanda che non vuol tacere: Cosa resta di umano, cosa resta di ciascuno di noi dopo le guerre, le perdite e le rovine del tempo? Perché esistiamo? L’esistenza, a cosa si destina? La risposta è nell’abbozzo di sorriso di Cabiria e delle altre Cabirie. Niente di molto esplicito, né chiaro. La vita è sempre un abbozzo, secondo lo stesso Fellini.
“Non credo che un artista debba avere, o abbia bisogno di avere idee precise. Ciò che dice al di fuori del suo lavoro non significa nulla. È un insieme di sciocchezze. Non voglio avere un’idea fissa sulla vita. L’unica cosa che voglio sapere è: ‘Perché sono qui? Cos’è la mia vita?’ All’infuori del mio lavoro, non sono sicuro di niente. Quanto più vecchio divento, meno so. Non seguo un metodo di lavoro determinato. O di vita. Semplicemente, vivo. Semplicemente, faccio cose”.
[xvi] (FELLINI, 1983, p. 56)
Ma il poeta conclude la canzone col seguente verso: “Giulietta Masina/ quel volto è il cuore di Gesù”
[xvii]. (OMAGGIO..., 1999, traduzione nostra) Evidentemente, non si tratta di rivendicare l’aspetto puramente religioso, laudativo nei film di Fellini, ma si vede che Caetano percepisce un certo tratto cristiano espresso nei film felliniani, assieme a tutto ciò che tale tratto reca di eretico e politico: il sacro sarebbe espresso, nella sua più alta potenza, nel corpo di una prostituta, di una donna abbandonata dalle sue fantasie, ma che danza tra i bambini. La divisione chiara tra religione, politica e arte si lacera, tanto in Fellini come in Caetano, con un certo sguardo iconoclasta. Le riflessioni e i saperi dei due artisti si connettono ai più disparati campi della conoscenza, estrapolano il senso filosofico. Avviene un gioco labirintico tra categorie di stampo politico e di ordine storico, così come con alcuni aspetti presenti in testi di profilo religioso, creando zone di tensione e di convergenza che dissipano le frontiere chiare tra un discorso e un altro; nebbia delle verità. Così, possiamo concludere questo saggio dichiarando: Cabiria esiste e resiste ancora in molte donne, malgrado tutto!
BIBLIOGRAFIA
AGAMBEN, G.
Homo Sacer: il potere sovrano e la nuda vita. Torino: Einaudi, 2005.
FELLINI, F.
Fellini por Fellini. Traduzione di José Antônio Pinheiro Machado, Paulo Hecker Filho e Zilá Bernd. Porto Alegre: LP&M, 1983.
FELLINI, F.
Noites de Cabíria. São Paulo: Publifolha, 2018. (Coleção Folha Grandes Diretores do Cinema, 5). Acompanhado de um DVD com o filme.
NIETZSCHE, F.
La nascita della tragedia – Considerazioni Inattuali, I-III. Vol. 3, tomo I. A cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Milano: Adelphi, 1972.
OMAGGIO a Federico e Giulietta. Interprete: Caetano Veloso. Rio de Janeiro: Universal Music, 1999.
[i] Versione in portoghese: “Mas é um absurdo querer diferenciá-los entre cômicos e filósofos, atores e autores, palhaços e poetas, pintores e cineastas”.
[ii] Versione in portoghese: “[...] porque previu as imagens do cinema antes dos irmãos Lumière inventarem o cinematógrafo, talvez porque se sentisse continuamente atraído pelos deserdados e desafortunados, aqueles a quem as pessoas ‘respeitáveis’ consideram depravados”.
[iii] Versione in portoghese: “Cristão, o que quer dizer isso? Se, por cristão, se compreende uma atitude de amor pelo próximo, parece que... sim, todos os meus filmes têm como eixo essa ideia. Há uma tentativa de contar um mundo sem amor, personagens cheios de egoísmo, pessoas que exploram os outros e, nesse panorama tão ‘beluário’, há sempre, e especialmente nos filmes com Giulietta, um pequeno ser que quer dar amor e que vive pelo amor.”
[iv] Versione in portoghese: “Acredito em Jesus: que ele é não apenas o maior personagem da humanidade, mas que continua a sobreviver no ser que se sacrifica por seu próximo. Sou ignorante a respeito dos dogmas católicos. Talvez seja herético.”
[v] Versione in portoghese: “Meu cristianismo é bruto. Não pratico os sacramentos, mas penso que a prece poderia ser considerada como uma ginástica que nos levaria cada vez mais perto do sobrenatural”.
[vi] Versione in portoghese: "Meus filmes, ao contrário, dão ao espectador uma responsabilidade muito específica. Eles terão, por exemplo, que decidir qual será o fim de Cabíria. A sorte de Cabíria está nas mãos de cada um de nós. Se o filme nos emocionou, nos perturbou, devemos imediatamente, desde o primeiro encontro com os amigos, ou com nossa mulher (porque qualquer um pode ser Cabíria, isto é, uma vítima), devemos começar a manter relações novas com o nosso próximo. Se filmes como I Vitelloni, La Strada, Il Bidone, deixam no espectador esta emoção misturada com um leve mal-estar, penso que atingiram seu objetivo. Sinto e posso mesmo afirmar hoje, sem hesitação, que todas as histórias que imagino são para representar uma inquietação, um desconforto, um estado de fricção nas relações que deveriam ser normais entre as pessoas. Definitivamente, não quero dizer, com meus filmes, nada a não ser que, com maior ou menor obstinação, deve haver uma maneira de melhorar as relações entre os homens."
[vii] Versione in portoghese: “Cabíria, minha última figura, ainda frágil, desditosa e terna, depois de tantas desventuras e do fracasso de seu ingênuo amor, continua a crer no amor e na vida.”
[viii] Le citazioni di Nietzsche presenti nel testo di partenza, provenienti dalla traduzione brasiliana di “La nascita della tragedia” a cura di Jacó Guinsburg, pubblicata nel 1998 dall’editrice Companhia das Letras, sono state sostituite dalla versione italiana, edita dalla Adelphi, indicata nella bibliografia finale.
[ix] Versione in portoghese: “Uma explosão lírica em música, uma canção cantada no bosque, encerra o filme tão trágico porque, apesar de tudo, Cabíria leva no coração o segredo de uma graça descoberta. E não se trata de buscar definir a natureza dessa graça”.
[x] Le citazioni di Agamben riportate nel testo di partenza, estratte dalla traduzione brasiliana di “Homo Sacer” a cura di Henrique Burigo, pubblicata nel 2014 dall’editrice Autêntica, sono state sostituite con la versione originale italiana, edita dall’Einaudi, indicata nella bibliografia finale.
[xi] Versione in portoghese: "Quando, nas fitas, a carga lírica de inspiração, que sempre é um ato de amor, me permite esboçar um sorriso ante um rosto em lágrimas, estender a mão a quem está à beira de se perder, indicar um caminho ao que se perdeu, oferecer um ideal a quem apenas sonhou com fantasmas, quando consigo separar as aventuras da vida e seus enganos, fico com a impressão de não ter traído ninguém, de ter feito o bem, a mim primeiro que aos outros. Meus filmes não se orientam pela lógica do roteiro, mas numa dimensão do amor."
[xii] Versione in portoghese: "Na minha opinião, a decadência é a condição indispensável do renascimento. Já disse que amava os naufrágios. Sinto-me, portanto, feliz em viver numa época em que tudo naufraga. É uma época maravilhosa, porque é o naufrágio de uma série de ideologias, de conceitos e de convenções. O homem foi à lua, não é? Então, falar de bandeiras, de fronteiras e moedas diferentes é totalmente absurdo. É preciso modificar por completo tudo isso. Acredito que o processo de dissolução será completamente natural. Não vejo nisso o signo da morte da civilização, mas, ao contrário, (signo) de sua vida. É o fim de certa fase da humanidade."
[xiii] Versione in portoghese: "Com boas intenções, com bons sentimentos, com uma fé apaixonada nos próprios ideais, sem dúvida, pode-se fazer uma bela política, uma fecunda obra social – coisas talvez mais úteis que o cinema – mas não necessariamente bons filmes. E, no fundo, não há nada mais feio, e penoso, principalmente por ser inútil e ineficaz do que um filme político de má qualidade. O engajamento, na minha opinião, impede o desenvolvimento do indivíduo. Meu antifascismo é de ordem biológica."
[xiv] Versione in portoghese: “Gulietta Masina/ Ah, puta de outra esquina/Ah, minha vida sozinha/ Ah, tela de luz puríssima/ Existirmos, a que será que se destina”.
[xv] Versione in portoghese: “são pálpebras de neblina, pele d’alma”.
[xvi] Versione in portoghese: "Não creio que um artista tenha ou necessite ter ideias precisas. O que diz fora de seu trabalho não significa nada. É um conjunto de tolices. Não quero ter uma ideia fixa sobre a vida. A única coisa que quero saber é: ‘Por que estou aqui? O que é a minha vida?’ Afora meu trabalho, não estou seguro de nada. Quanto mais velho me torno, menos sei. Não sigo um método determinado de trabalho. Ou de vida. Simplesmente vivo. Simplesmente faço coisas."
[xvii] Versione in portoghese: “Giulietta Masina/ aquela cara é o coração de Jesus”.
Testo tratto dal
volume: Diálogos com Fellini. Cássia Lopes, Paulo Henrique Alcântara (Org). Salvador: EDUFBA. 2020, p. 35-50
Traduzione in italiano e note di Daniele Fonnesu
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CÁSSIA COSTA LOPES. Cronista, saggista, professoressa e ricercatrice nelle aree di Lettere e Arti Sceniche. Dal 1996 insegna e ricerca presso l’Istituto di Lettere dell’Universidade Federal da Bahia (UFBA), dove esercita la funzione di professore associato di livello IV in regime a tempo pieno. È docente permanente del Programma Post-Lauream di Arti Sceniche (PPGAC) e del Programa Post-Lauream di Letteratura e Cultura (PPGLitCult) presso l’Istituto di Lettere dell’UFBA. È autrice di vari libri, tra i quali “Gilberto Gil: a poética e a política do corpo”, pubblicato dalla casa editrice Perspectiva nel 2012.
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Daniel Fonnesu. Dottorando in Letteratura e Cultura presso l’Universidade Federal da Bahia (linea di ricerca: Studi di Traduzione Culturale e Intersemiotica), master in Letteratura e Cultura e laurea in Lettere (Lingua Italiana e Lingua Inglese) presso la stessa istituzione; laurea in Ingegneria Informatica presso l’Università degli Studi di Padova.
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TEXTO EM PORTUGUÊS (Testo in italiano)O que resta de Cabíria?
por
Cássia Costa Lopes
Federico Fellini (1920-1993) não apenas deixou filmes inesquecíveis; sobretudo, transmitiu o sabor de libertação da potência que nasce do resto de existências humanas, diante das ruínas do nosso tempo. A afirmativa parece vaga, se não contextualizarmos os motivos que fermentam tal constatação, norteadores da escrita deste ensaio. Para tanto, vamos escolher a protagonista feminina do filme
Noites de Cabíria, de 1957, cuja intérprete é Giulietta Masina, esposa do cineasta italiano. Esse filme lhe rendeu a Palma de Ouro de melhor atriz em Cannes e conquistou o Oscar de melhor filme estrangeiro.
Ao discorrer sobre a impossibilidade de classificar os grandes criadores, Federico Fellini revela a si mesmo: “Mas é um absurdo querer diferenciá-los entre cômicos e filósofos, atores e autores, palhaços e poetas, pintores e cineastas”. (FELLINI, 1983, p. 53) Em meio a essa reflexão, quando o critério classificatório mostra-se redutor, ele se lembra de Toulouse Lautrec como um amigo, como exemplo ilustrativo de sua declaração: “[...] porque previu as imagens do cinema antes dos irmãos Lumière inventarem o cinematógrafo, talvez porque se sentisse continuamente atraído pelos deserdados e desafortunados, aqueles a quem as pessoas ‘respeitáveis’ consideram depravados”. (FELLINI, 1983,p. 53-54) A simpatia do cineasta italiano pelo pintor francês pode ser entendida pela escolha de Fellini quanto ao destino e as desventuras da personagem Cabíria.
Embora retrate a Itália devastada pela Segunda Guerra, após 12 anos,
Noites de Cabíria expõe a atmosfera de desamparo numa perspectiva que ultrapassa a dimensão apenas territorial, com os ecos dos horrores praticados por Mussolini e seus asseclas fascistas. Observam-se outras formas de abandono explicitadas pela personagem central, peregrina de outras fronteiras de linguagem, em diálogo com o cenário contemporâneo, para além do cinema neorrealista italiano. Trata-se de uma prostituta, habitante da periferia de Roma, uma região inóspita, cuja materialidade do cenário já retrata o cotidiano da personagem: a casa adquirida com muito esforço e longas noites de lida se restringe a uma construção com um único cômodo, uma caixa de cimento no meio de uma terra árida, imagem síntese do mundo de Cabíria e de suas vizinhas, paisagem desprovida de ilusões e de fantasias.
OS ENGANOS DE CABÍRIA
Apesar de se perceber certa curva dramática no roteiro do filme, seu caráter aproxima-se do episódico. A narrativa de Cabíria poderia ser resumida numa sucessão de enganos, de desacertos amorosos, numa simplificação econômica de dados biográficos, talvez por isso mesmo problemática para situar a complexidade da personagem. Na primeira cena do filme, descortina-se a troca de beijos entre os amantes, mas o ambiente romântico dissipa-se, quando a personagem é lançada pelo seu namorado em um rio. Ela foi literalmente arrebatada pela correnteza das águas. Poderia ter morrido, não fosse a ação generosa de algumas crianças que a salvaram do afogamento. Mergulhada em agonia e desencanto, a personagem custou a acreditar no gesto vindo daquele homem por quem julgava ser amada. No entanto, constatou a razão do ocorrido: o interesse pela sua bolsa, onde se encontravam 40 mil libras. Por mais que Cabíria tentasse se segurar nas promessas do amor, ela parecia sempre destinada ao fracasso amoroso e a caminhar pelas esquinas e noites de Roma.
A partir dessa cena inicial, são vários os episódios apresentados sobre o modo como Cabíria vive seu cotidiano de meretriz, com seu caráter sempre aberto e inacabado. Cada homem com que ela se deita traz, para a personagem, a insegurança máxima dos dias, a incerteza como a única certeza, mas nos revela um ser que não está fechado sobre si mesmo, guardado no em si, inacessivelmente. O seu ofício exige que esteja aberta ao acaso, ao acontecimento, quando alguém poderá chegar, inesperadamente, para solicitar os seus serviços. Se a noite não lhe traz o esquecimento dos dias no sono das madrugadas, vemos que, na troca entre prazer e dinheiro, na relação com o corpo da meretriz, transparecem múltiplas facetas humanas, seus planos psicológicos e sociais, os ecos dos pesadelos e sonhos de muitas mulheres.
Levada pela neblina de sua rotina, a personagem vislumbra a luz indecisa de uma boate elegante, lugar direcionado ao entretenimento dos mais abastados financeiramente. Defronta-se com o olhar de soslaio do segurança da casa noturna, como a dizer-lhe quão estranha é naquele mundo, cuja senha de entrada não foi dada a conhecer. Em meio a esse quadro embaraçoso, acaba assistindo a um conflito entre um homem e uma mulher: o ator famoso Alberto Lazzari, interpretado por Amedeo Nazzari, e a namorada Jessy, interpretada por Dorian Gray. É inacreditável a cena vista, principalmente porque o ator convida Cabíria para adentrar um carro de luxo e a leva para sua mansão, espaço avesso ao seu
habitat, com um aparato decorativo marcado por alto grau de sofisticação, impossível para o mundo povoado pela meretriz. É um choque
de classes, de modos de existência, mas isso não foi o obstáculo para o encontro afirmado pelo acaso, não fosse a chegada inesperada da namorada Jessy, que leva Cabíria a se esconder no banheiro da alcova e passar a noite ao lado do cachorro de estimação da casa. O sonho se desfez e trouxe a manhã despossuída de encantos. Mais uma vez, a personagem encontra-se em meio à sua solidão e ao desamparo.
Em contraste, em outro episódio, mostra-se a prostituta a entrar em um caminhão, dirigido por um homem qualquer, cliente desprovido de recursos econômicos, sem saber qual estrada a esperava. Após o encontro, acabou sendo deixada em um terreno baldio, com gente abandonada, mendigos escondidos em buracos, pequenas cavernas, onde se protegiam do frio e do olhar alheio. Na cena, a personagem viu um homem a distribuir alimentos, uma pessoa dita caridosa, cuja prática parecia ser reconhecida por aqueles necessitados de ajuda, mas também por Fellini e sua visão do cristianismo:
Cristão, o que quer dizer isso? Se, por cristão, se compreende uma atitude de amor pelo próximo, parece que... sim, todos os meus filmes têm como eixo essa ideia. Há uma tentativa de contar um mundo sem amor, personagens cheios de egoísmo, pessoas que exploram os outros e, nesse panorama tão ‘beluário’, há sempre, e especialmente nos filmes com Giulietta, um pequeno ser que quer dar amor e que vive pelo amor. (FELLINI, 1983, p. 54)
Embora o cineasta ressalte esse aspecto cristão de seu personagem, inscrito em
Noites de Cabíria, há, em Fellini, uma vocação para pensar o cristianismo para além dos dogmas. Existe a presença do cristianismo numa prática religiosa que excede os aspectos dogmáticos, pois a heresia parece nortear os seus filmes: “Acredito em Jesus: que ele é não apenas o maior personagem da humanidade, mas que continua a sobreviver no ser que se sacrifica por seu próximo. Sou ignorante a respeito dos dogmas católicos. Talvez seja herético.” (FELLINI, 1983, p. 55) Dentro dessa moldura de crenças, vemos Cabíria seguir uma procissão por Roma e pedir à Virgem Santíssima a mudança do rumo dos seus dias. A cena da prostituta, realizando suas preces aos pés da Santa, enfatiza o abandono da personagem, suas angústias, em gesto denunciador de seus desejos mais íntimos.
Quanto a esse tema, o cineasta comenta: “Meu cristianismo é bruto. Não pratico os sacramentos, mas penso que a prece poderia ser considerada como uma ginástica que nos levaria cada vez mais perto do sobrenatural”. (FELLINI, 1983, p. 55)
O próximo episódio do filme, no entanto, desmonta toda a ideia de salvação. Após a prece destinada à Virgem Maria, defrontamo-nos com a personagem, interpretada por Giulietta Masina, numa cena emocionante: ela entra em um teatro de variedades e se encontra com um mágico que exercita, no palco, a hipnose como uma de suas atividades lúdicas. Ela sobe no palco, a convite do profissional, e se deixa hipnotizar. Com esse gesto, exibe suas fantasias amorosas e seu enorme desejo de ser amada. Toda sua inocência fica exposta para a plateia, onde se encontra Oscar, um oportunista que vê, na moça, presa fácil para um golpe em face dos sonhos românticos: o da promessa do casamento e do grande amor. Ele se aproxima de Cabíria e constrói toda uma narrativa que a seduz a partir das projeções assistidas no palco.
E no desejo, ainda sustentado pela fantasia de ser amada, ela se deixa enganar mais uma vez, e a cena se repete. Ela vende a casa onde guardava sua memória, o espelho onde se mirava em cada manhã. Põe as roupas em malas e segue ao encontro do amado, com todo o dinheiro arrecadado com as vendas dos seus pertences. Em um restaurante, vestido da máscara de cavalheiro, Oscar não a deixa pagar a conta da refeição, e a convida para dar um passeio por um bosque. Ela confia, deixa suas malas no local e seguem esse caminho que desemboca, literalmente, em um abismo, no qual ele pretende empurrá-la. Somente na beira desse despenhadeiro, ela pressente a vontade do namorado de matá-la: aos berros, pede para que ele dê fim à existência dela, mas sente que ele só deseja o dinheiro. E se repete a mesma cena inicial do filme. Uma repetição, com uma diferença significativa: mais uma vez, um homem tenta matá-la, passando-se por um enamorado e foge com sua bolsa, mas este último não a empurra desfiladeiro abaixo. Ele foge com todas as economias de Cabíria, resultantes de anos de trabalho. Estupefata diante do ocorrido, ela permanece viva, aberta a um caminho desconhecido, sem nenhum tipo de expectativa. Quanto a esse final, o cineasta comenta:
Meus filmes, ao contrário, dão ao espectador uma responsabilidade muito específica. Eles terão, por exemplo, que decidir qual será o fim de Cabíria. A sorte de Cabíria está nas mãos de cada um de nós. Se o filme nos emocionou, nos perturbou, devemos imediatamente, desde o primeiro encontro com os amigos, ou com nossa mulher (porque qualquer um pode ser Cabíria, isto é, uma vítima), devemos começar a manter relações novas com o nosso próximo. Se filmes como I Vitelloni, La Strada, Il Bidone, deixam no espectador esta emoção misturada com um leve mal-estar, penso que tingiram seu objetivo. Sinto e posso mesmo afirmar hoje, sem hesitação, que todas as histórias que imagino são para representar uma inquietação, um desconforto, um estado de fricção nas relações que deveriam ser normais entre as pessoas. Definitivamente, não quero dizer, com meus filmes, nada a não ser que, com maior ou menor obstinação, deve haver uma maneira de melhorar as relações entre os homens. (FELLINI, 1983, p. 131)
O SORRISO DE CABÍRIA
Mas o que resta de Cabíria, depois de tudo? A última cena, após esse episódio, é crucial para a construção deste ensaio. Quando o mundo parece desabar, quando seu projeto mostra-se arruinado, a personagem revela-se condenada a ser um resto humano, sem absolutamente nada nas mãos. Atordoada, sem nenhum adjetivo possível de qualificar sua existência, ela se encontra com a própria vida nua, com o resto de si. Regressa pelo bosque, entre rumores de árvores e ventos, até chegar a uma estrada onde se encontra, inesperadamente, com crianças e suas vozes a entoarem uma música, que leva Cabíria a movimentar o corpo, num impulso único de vida. Segundo o próprio Fellini, “Cabíria, minha última figura, ainda frágil, desditosa e terna, depois de tantas desventuras e do fracasso de seu ingênuo amor, continua a crer no amor e na vida.” (FELLINI, 1983, p. 62) Nasce o esboço do sorriso no rosto dessa mulher, entre ruínas de si mesma. A personagem, envolvida em ritmos, produz o riso no rosto, mas o que significa esse gesto de Cabíria? Sua tez ensolarada em meio a tudo?
Não há, no entanto, uma salvação transcendental para a personagem Cabíria. Também esse riso não seria sinônimo de esperança, pois esta ainda se apoia em uma ideia de tempo futuro, quando o que notamos é mais a afirmação do presente, devir-eu no instante, não nos dias vindouros. O filme de Fellini não é uma apologia débil da esperança. Se a personagem não desiste da vida, é pela própria vida que resta, que a impulsiona. Só sobra o amor a nascer do próprio resto, não é um amor por alguém: Cabíria não tem ninguém a quem amar; é órfã, não possui filhos, parentes, ideais consagrados, ninguém em especial, a não ser a colega de prostituição, de quem se despediu sem nenhuma dor. Enfim, o que resta a Cabíria é uma força a movê-la, presente na sua vida desqualificada, mas pulsante na música tocada pelas crianças na estrada.
Nessa cena extrema, se o elemento musical traduz a presença de Dioniso, seu princípio de dissociação do eu, também assume função importantíssima para o desfecho ou abertura da narrativa de Cabíria. Aqui, a vida é só voz; ela não é fala em nome de alguém específico, entra em outros jogos de solidariedade, não restritos aos humanos, são os rumores do bosque, inseparáveis da música e das vozes das crianças. Cantando e dançando como parte de uma comunidade, “[...] o subjetivo se esvanece em auto-esquecimento”. (NIETZSCHE, 1998, p. 30) O homem é também obra de arte coletiva, quando emerge o esquecimento de uma subjetividade centralizadora, carregada de individuação. Este era o papel dos coros báquicos e das festas orgiásticas: produzir o laço com a natureza, com as crianças e com os seres humanos. Quanto a essa cena, Federico Fellini esclarece: “Uma explosão lírica em música, uma canção cantada no bosque, encerra o filme tão trágico porque, apesar de tudo, Cabíria leva no coração o segredo de uma graça descoberta. E não se trata de buscar definir a natureza dessa graça”. (FELLINI, 1983, p. 131) Bem, nossa questão é exatamente pensar esse “apesar de tudo”, como categoria estética e filosófica, sugerida por Fellini, em seu filme.
A narrativa trágica de Cabíria parece trazer, em suas entranhas, a problemática existencial básica: a maneira como o homem responde ao sofrimento, à dor, com toda crítica ao pensamento ascético. Se, com Nietzsche, pensamos o motivo pelo qual os gregos produziram os deuses olímpicos ou a tragédia, se foi para tornar a vida possível ou desejável e para oferecer ao mundo uma superabundância de vida, o que faz Fellini em seu filme? Sua arte é um modo de reagir ao pensamento pessimista puro que aniquila e paralisa a vida e, para isso, assimila o trágico? As passagens fellinianas instauram um pessimismo para além do bem e do mal, contra a significação moral da existência, construindo uma reflexão sobre o valor da vida mesma, numa crítica à moldagem ressentida da praxe humana.
Com a cena final do filme, ocorre a valoração artística da vida, refratária à concepção moral da existência, aos paradigmas modulados pelo certo/errado; erro, acerto. A vida justifica-se como fenômeno estético: a vida como obra de arte, mas a estética não é subjugada pela razão. Com a arte musical de Dioniso, aprendemos com Nietzsche que existe o perigo em ficar à beira do abismo, do precipício, mas a criança aceita ficar por prazer, ela brinca com o precipício porque sobra jovialidade, sobra força. Se o puro Dionísio é um veneno, uma vez que pode acarretar o aniquilamento da vida; a arte surge como força que transfigura o veneno em remédio. A nossa questão é exatamente essa: como transformar a vida nua, o resto de uma vida, como converter o veneno em antídoto, em remédio. O filme nos incita a pensar, em uma leitura mais rápida, que Cabíria é apenas uma sobrevivente, pois emerge como sujeito residual, trapo humano, entregue à vida nua. No entanto, o filme aponta para outro aspecto: quando a vida nua traz, em si mesma, o antídoto contra a nadificação, ciente de que: “A nossa política não conhece hoje outro valor (e, consequentemente, outro desvalor) que a vida”. (AGAMBEN, 2014, p. 17)
Assim, o resto de Cabíria é o que está por toda parte do corpo biopolítico, um corpo que existe em espaço subjetivo inseparável de um espaço político, um ponto no qual a servidão voluntária, diante dos homens e dos deuses, comunica-se com o que há de mais solto e vazio da vida nua, na crítica a todo regime totalitarista. O trabalho de Cabíria é com o corpo, e é exatamente aí que se dá o investimento de controle e exploração. Alargando esse enfoque, sobre as ruínas da história de cada um e do mundo, Giorgio Agamben traz contribuição fecunda sobre esse tema da vida e sua nudez, em seu livro o
Homo Sacer: o poder soberano e a vida nua, importante para a leitura do filme escolhido para análise.
Segundo o filósofo italiano, os gregos não usavam um único termo para significar a vida, mas costumavam diferenciá-la entre
zoé: que expressa o “[...] simples fato de viver comum a todos os seres vivos (animais, homens ou os deuses) e a
bios, que indicava a forma ou maneira de viver própria de um indivíduo ou de um grupo”. (AGAMBEN, 2014, p. 9, grifo do autor) Se para os gregos pensar a
zoé política seria impossível, o mesmo não ocorre na contemporaneidade: uma simples vida, ou vida natural, pode trazer um elemento forte de resistência e de transformação política, é o que declara Agamben quando explicita a lucidez de Aristóteles: “[...] é evidente que a maior parte dos homens suporta muitos sofrimentos e suporta a vida (
zoé), como se nela houvesse uma serenidade (
eueméria, belo dia) e uma doçura natural”. (AGAMBEN, 2014, p. 10, grifo do autor)
Se a simples vida natural, o corpo com suas forças, é recalcada no mundo clássico, por processo de polarizações e dicotomias, o cinema felliniano nos oferece a oportunidade de rever esses termos. A chave é ler a graça, vivida por Cabíria, ao fim de tudo e de todas as suas perdas, em um trânsito, numa zona límbica, entre a vida nua, desqualificada, no seu mais intenso resto, e a vida qualificada (
bios), politizada. O que resta em Cabíria, paradoxalmente, é o caráter indestrutível depois de toda destruição, é a ruína de si que resiste a toda exploração, uso, abuso das pessoas e dos homens, a toda manipulação social. Nota-se outra forma de definir a resistência fora do jogo opositivo: resistir não é opor-se a um sistema, a alguém específico, mas a resistência é potência de vida; é como Nietzsche aprendeu com o mundo helênico: é criação, é arte. A natureza expressa-se por uma via simbólica. Um simbolismo corporal em movimentos rítmicos; exterioriza-se na vertente lírica, de uma voz sem dono.
Isso é o que nos revela o filme de Fellini. O que resta é exatamente o que ninguém poderá destruir, a força disseminada na música tocada pelas crianças, uma vida intensificada que nos impõe uma suspensão no tempo presente, longe dos dispositivos de poder inscritos no futuro. Nesse caso, o porvir põe a vida como enorme pesadelo, sob as ameaças da morte e do infortúnio. Com Nietzsche, passamos a pensar a tragédia a partir do espírito da música, de acordo com os rituais de Dioniso. Assim, através do coro: “[...]a vida, no fundo de todas as coisas, apesar de toda mudança das aparências fenomenais, é indestrutivelmente poderosa e cheia de alegria”. (NIETZSCHE, 1998, p. 55) Em referência a isso, Fellini traz a música e seu poder de suspensão lírica, que livra o homem das amarras teleológicas e faz com que se deixe levar pela estrada do presente. Quanto a esse enfoque, cito o próprio Fellini:
Quando, nas fitas, a carga lírica de inspiração, que sempre é um ato de amor, me permite esboçar um sorriso ante um rosto em lágrimas, estender a mão a quem está à beira de se perder, indicar um caminho ao que se perdeu, oferecer um ideal a quem apenas sonhou com fantasmas, quando consigo separar as aventuras da vida e seus enganos, fico com a impressão de não ter traído ninguém, de ter feito o bem, a mim primeiro que aos outros. Meus filmes não se orientam pela lógica do roteiro, mas numa dimensão do amor. (FELLINI, 1983, p. 62)
Plasmada na cena lírica, a música traduz o inominável, depois de tantas perdas, depois de tanta dor! A liberdade diante do que resta afirma- se na voz lírica, pois a dimensão do tempo muda: não há mais o futuro como um dispositivo de controle, com suas perspectivas e ameaças de conflito e de perdas. O que resta da noite é, portanto, Cabíria. É uma espécie de nome próprio dado à vida nua, como pura potência de reinvenção para outro caminho que não é narrável, biografável, não pode ser contada em episódios, porque ultrapassa o dizível. Há poesia, apesar do sofrimento. Não pela dor, mas, apesar da dor. Não é porque sofre, mas, apesar de sofrer todas as perdas, que ela não desiste de si mesma. Com Cabíria, também a vida é válida em si mesma e o homem deverá aprender a rir. Como Nietzsche afirmou: “O riso eu declarei santo: vós, homens superiores, aprendei – a rir”. (NIETZSCHE, 1998, p. 23) E Cabíria lança um poderoso “sim”!
Depois da dissolução do mundo da personagem felliniana, em que nada permaneceu intacto, resta pensar o que ficou das noites da meretriz? Pensá-la apenas como sobrevivente, pode empurrá-la novamente para uma vida matável, não como resto, rebeldia da vida nua, enquanto potência lírica. Esse é o recurso usado por Fellini para tratar desse tema no final do filme: foi o lirismo, a poesia a germinar no resto, como pura potência de criação, que fez a personagem Cabíria ser habitante de uma zona de possibilidade. Ela perdeu toda a dignidade. Tiraram--lhe tudo, menos a vida! Não eram só os homens que penetravam no corpo de Cabíria, mas o próprio poder, em sua forma de vida desqualificada. Mas não lhe tiraram o lirismo após a perda de tudo, a poesia da estrada. Se a animalização é um recurso utilizado, pelos aparatos de poder, para despotencializar a vida humana, a questão é capturar a
zoé, a potência animal existente no humano. Eis a força do cinema felliniano! Chega-se ao limiar de nadificação humana para, diante desse enorme vazio, encontrar uma força capaz de afirmação da existência. A poesia deflagra-se nas ruínas de Cabíria. A poesia que resta, depois de uma Itália devastada pela guerra:
Na minha opinião, a decadência é a condição indispensável do renascimento. Já disse que amava os naufrágios. Sinto-me, portanto, feliz em viver numa época em que tudo naufraga. É uma época maravilhosa, porque é o naufrágio de uma série de ideologias, de conceitos e de convenções. O homem foi à lua, não é? Então, falar de bandeiras, de fronteiras e moedas diferentes é totalmente absurdo. É preciso modificar por completo tudo isso. Acredito que o processo de dissolução será completamente natural. Não vejo nisso o signo da morte da civilização, mas, ao contrário, (signo) de sua vida. É o fim de certa fase da humanidade. (FELLINI, 1983, p. 136)
A cena final do filme não significa o ocaso de Cabíria. Ao matarem os sonhos, ao retirarem todas as ilusões da personagem, ao lhe roubarem todo o dinheiro economizado por dias e noites de trabalho como meretriz, ao perder a casa, seus hábitos e seus pertences, a convenção afirma: Cabíria foi reduzida a uma ruína humana. Porém, é nesse momento que ela adquire a sua potência, não um poder equiparável ao construído pelos aparatos do Estado e da manobra da justiça, mas ao resto como possibilidade de vida, do vir a ser. Se os aparatos de poder se interessam pela
zoé, vida nua, como forma de controlá-la, tal como ocorreu com a sexualidade descrita por Michel Foucault, cabe pensar uma arte que mostra como a vida nua torna-se política quando se revolve em resto, em um jogo complexo entre veneno e remédio. Se Cabíria representa exatamente a vida nua, que pode ser matável, aniquilada, é nessa mesma vida nua que ela encontra certa liberdade, uma força sobre a qual ninguém porá as mãos, um gesto sem dono, à margem. Uma força que não é narrável, o inominável diante do recurso biográfico, pois não se sujeita a um tipo de lógica da vida convencional.
Embora Fellini não defina seu filme como "engajado" e menospreze até esse termo, o que se nota é uma sensibilidade para pensar o desamparo humano e as ruínas da história de cada ser vivente, sem negligenciar as forças do corpo, numa espécie de ética do resto, ética desvinculada de uma moral ideológica e teleológica, de cunho salvacionista. É fora de uma consciência moral que a vida resiste e se liberta, é muito mais do que um aparato logocêntrico, pois envolve o movimento do corpo, o lirismo da arte de quem se deixa embalar por ventos, por música e por risos de crianças. É a eficácia de uma arte que potencializa a vida, enquanto agente de criação e reinvenção de si mesmo:
Com boas intenções, com bons sentimentos, com uma fé apaixonada nos próprios ideais, sem dúvida, pode-se fazer uma bela política, uma fecunda obra social – coisas talvez mais úteis que o cinema – mas não necessariamente bons filmes. E, no fundo, não há nada mais feio, e penoso, principalmente por ser inútil e ineficaz do que um filme político de má qualidade. O engajamento, na minha opinião, impede o desenvolvimento do indivíduo. Meu antifascismo é de ordem biológica. (FELLINI, 1983, p. 131)
A propósito, em disco dedicado a Fellini, Caetano Veloso nos apresenta a canção Giulietta Masina, fechamento de portas para esse ensaio. Nos versos, o cantor baiano declara: “Gulietta Masina/ Ah, puta de outra esquina/Ah, minha vida sozinha/ Ah, tela de luz puríssima/ Existirmos, a que será que se destina”. (OMAGGIO..., 1999) Nos versos destacados, nota-se a nítida alusão à personagem Cabíria, como se ela estivesse em todos nós. Há um pouco de Cabíria em cada um que se sente desamparado, a vida nua sem adorno. Como diz o poeta, “são pálpebras de neblina, pele d’alma” onde nos perdemos, onde nos colocamos em questão. Como ruínas de valores numa pergunta que não se cala: O que resta de humano, de cada um de nós depois das guerras, das perdas e das ruínas do tempo? Para que existirmos, a que se destina? A reposta vem no esboço do sorriso de Cabíria e de outras Cabírias. Nada muito explícito, nem claro. A vida é sempre um esboço, de acordo com o próprio Fellini.
Não creio que um artista tenha ou necessite ter ideias precisas. O que diz fora de seu trabalho não significa nada. É um conjunto de tolices. Não quero ter uma ideia fixa sobre a vida. A única coisa que quero saber é: ‘Por que estou aqui? O que é a minha vida?’ Afora meu trabalho, não estou seguro de nada. Quanto mais velho me torno, menos sei. Não sigo um método determinado de trabalho. Ou de vida. Simplesmente vivo. Simplesmente faço coisas. (FELLINI, 1983, p. 56)
Mas o poeta termina a canção com o seguinte verso: “Giulietta Masina/ aquela cara é o coração de Jesus”. (OMAGGIO..., 1999) Evidentemente, não se trata de reivindicar o aspecto puramente religioso, laudatório nos filmes de Fellini, mas se vê que Caetano percebe certo traço cristão expresso nos filmes fellinianos, com tudo que carrega de herético e político: o sagrado estaria expresso, em sua mais alta potência, no corpo de uma prostituta, de uma mulher abandonada por suas fantasias, mas que dança entre crianças. A divisão clara entre religião, política e arte se esgarça tanto em Fellini, como em Caetano, com certo olhar iconoclasta. As reflexões e os saberes dos dois artistas se conectam com os mais diferentes campos do conhecimento; extrapolam o sentido filosófico. Ocorre o jogo labiríntico entre categorias de cunho político e de ordem histórica, como também aspectos presentes em textos de perfil religioso, criando zonas de tensão e de convergência, a dissiparem as fronteiras claras entre um discurso e outro; neblina das verdades. Assim, podemos finalizar este ensaio declarando: Cabíria ainda existe e resiste em muitas mulheres, apesar de tudo!
REFERÊNCIAS
AGAMBEN, G.
Homo Sacer: o poder soberano e a vida nua. Tradução de Henrique Burigo. Belo Horizonte: Autêntica, 2014.
FELLINI, F.
Fellini por Fellini. Tradução de José Antônio Pinheiro Machado, Paulo Hecker Filho e Zilá Bernd. Porto Alegre: LP&M, 1983.
FELLINI, F.
Noites de Cabíria. São Paulo: Publifolha, 2018. (Coleção Folha Grandes Diretores do Cinema, 5). Acompanhado de um DVD com o filme.
NIETZSCHE, F.
O nascimento da tragédia ou helenismo e pessimismo. Tradução de Jacó Guinsburg. São Paulo: Companhia das Letras, 1998.
OMAGGIO a Federico e Giulietta. Intérprete: Caetano Veloso. Rio de Janeiro: Universal Music, 1999.
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Texto extraido da obra:
Diálogos com Fellini. Cássia Lopes, Paulo Henrique Alcântara (Org). Salvador: EDUFBA. 2020, p. 35-50 Cássia Costa Lopes. Cronista, ensaísta, professora e pesquisadora nas áreas de Letras e Artes Cênicas. Desde 1996, ensina e pesquisa no Instituto de Letras da Universidade Federal da Bahia (UFBA), onde ocupa o cargo de professor associado IV, em regime de dedicação exclusiva. É docente permanente do Programa de Pós-Graduação em Artes Cênicas (PPGAC) e do Programa de Pós-Graduação em Literatura e Cultura (PPGLINC) do Instituto de Letras da UFBA. É autora de vários livros, dentre os quais Gilberto Gil: a poética e a política do corpo, publicado pela editora Perspectiva, em 2012.