BOA SORTE: STORIE DI EMIGRANTI ITALIANI IN BRASILE. I Gesuiti nella storia di Bahia e del Brasile: Giovanni Antonio Andreoni
a cura di Andrea Lilli
Antica foto del Collegio Gesuita di Salvador, attivo dal 1553 al 1759 - Terreiro de Jesus
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

Scoperto dal portoghese Pedro Álvarez Cabral nel 1500, e perlustrato l’anno successivo dall’italiano Amerigo Vespucci, il Brasile non risentì nei primi due decenni del Cinquecento l’influenza della civiltà europea. Nel 1530 il governo portoghese vi mandò dei coloni che diedero origine, nel 1532, al primo centro cittadino: quello di São Vicente, presso il luogo dove sorge oggi Santos.

Il numero dei coloni aumentò però rapidamente: nel 1549 fu fondata Salvador, nel territorio dell’odierno Stato di Bahia, che fu per lungo tempo il più prospero dei centri abitati e divenne sede del Governatore Generale e poi del Viceré. Nel 1555, intorno alla casa dei gesuiti di Padre José de Anchieta a Piratininga, sorse la città di San Paolo, oggi la maggiore metropoli dell’America meridionale e dell’intero emisfero australe.

Durante i due secoli successivi, una lunga serie di eventi interni ed esterni – demografici, economici, sociali, bellici, politici e religiosi –, provocati dalla colonizzazione, trasformò totalmente la vita e la cultura delle popolazioni indigene. Fu un incrocio turbinoso di varietà etniche, di interessi, di idee, di civiltà. Di questi avvenimenti fanno parte i contrasti, spesso tenaci e feroci, dei coloni con le tribù indigene, le lotte degli stessi coloni con i militari, le battaglie di potenze straniere vogliose anch’esse di radicarsi sul suolo brasiliano: come il tentativo francese di occupare posizioni nella Baia di Guanabara, o come l’altro tentativo pure francese di affermarsi nel Maranhão; come le spedizioni degli olandesi capeggiati dal principe Maurizio di Orange-Nassau a Bahia, difesa vittoriosamente nel 1636 dal condottiero napoletano Giovanni Vincenzo Sanfelice; come la guerra pure olandese a Pernambuco; o come le imprese dei corsari inglesi a Bahia, a São Vicente, a Santos e a Recife, e il dominio spagnolo di un sessantennio.

Al centro di questo quadro, si svolse l’attività “missionaria” e culturale dei Padri della Compagnia di Gesù, fondata nel 1537 dal basco Ignazio di Loyola. I primi gesuiti più celebri per la storia brasiliana furono il portoghese Manuel da Nóbrega  (1517-1570) e lo spagnolo José de Anchieta (1534-1597, fatto santo da Papa Francesco nel corrente anno 2014), che nella crescente interazione fra culture differenti rappresentarono la longa manus della Chiesa cattolica romana, collaborando a ricondurre entro argini sociali sempre favorevoli ai Governatori  le tumultuose dinamiche sociali conseguenti ai primi secoli del colonialismo.

L’opera dei Gesuiti,  fu a tal punto importante che uno dei maggiori studiosi di storia brasiliana, João Capistrano de Abreu (1853-1927), affermò più volte che non è possibile scrivere la storia del Brasile senza considerare quella della Compagnia di Gesù, almeno fin quando, nel 1759, l’Ordine non venne espulso dal Brasile.

Ricorderemo qui un gesuita italiano tra i più importanti protagonisti della storia di Salvador de Bahia: padre Giovanni Antonio Andreoni, destinato a scontrarsi con i “poteri alti”, rappresentati da un gesuita più noto e importante di lui, padre Antonio Vieira, e dal governo portoghese in Brasile: infatti divenne famoso soprattutto per avere scritto col nome di André João Antonil un trattato, Cultura e opulencia do Brasil, che fu requisito e quasi totalmente distrutto dallo Stato per il suo contenuto, considerato ostile agli interessi (fiscali) governativi. Pertanto, un caso raro di gesuita scomodo.

Toscano come Vespucci, Andreoni nacque a Lucca nel 1649 e morì a Bahia nel 1716. Studiò Legge all’università di Perugia ed entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù a Roma, dove, compiuti i suoi studi classici, iniziò ad insegnare grammatica, scienza umanistiche e retorica, fino al 1677. Terminò, sempre a Roma, nel 1680, i prescritti quattro anni di teologia, sotto due grandi maestri, Bartolomeo Carreño e Silvestro Mauro. Nel 1681, ordinato sacerdote, partì missionario per il Brasile al comando di padre Antonio de Oliveira, procuratore delle missioni portoghesi a Lisbona, con il celebre padre Antonio Vieira e con altri gesuiti italiani. A Bahia il 15 agosto 1683 fece la professione dei quattro voti, di povertà, obbedienza, castità e di speciale obbedienza al Papa circa missiones.

Nei primi tempi poté esercitare, com’era suo desiderio, l’apostolato tra gli Indios delle regioni più interne, finché i superiori non decisero di destinarlo per dieci anni all’insegnamento letterario nei collegi; poi per altri dieci, in due diverse riprese, sostenne la carica di maestro dei novizi. Infine, per il resto della vita, fu segretario e socio dei provinciali (carica direttiva dei gesuiti), direttore del collegio massimo di Bahia , e preposto della provincia brasiliana (1705-09).

Alla destinazione di Giovanni Antonio Andreoni in Brasile, invece del Paraguay, dove sembra fosse stato dapprima assegnato, contribuì padre Antònio Vieira, il quale trascorse parecchi anni a Roma, dove fu colpito dall’ingegno di Andreoni. Nei primi tempi della loro frequentazione, dunque Vieira ne aveva grande stima. Da lì a poco, tuttavia, il portoghese denunciò a Roma l’italiano quale fomentatore di resistenze e ribellioni fra i gesuiti, definendolo ostile allo stesso Vieira nella sua qualità di visitatore generale in Brasile. Per effetto di tali contrasti si formarono in Brasile due fazioni, una favorevole al Vieira e l’altra all’Andreoni. Da parte del gruppo del Vieira si tese ad ostacolare l’attività dei gesuiti italiani in Brasile, richiamandosi ad ordinanze regie che vietavano agli stranieri di occupare cariche di governo nella Compagnia di Gesù in Brasile e di trasferirsi da un luogo all’altro. Ma a causa della protezione di cui Giovanni Antonio Andreoni godeva da parte del confessore del re del Portogallo, Sebastiano Magalhaes, fu ordinato da Lisbona alle autorità coloniali di considerarlo suddito portoghese e non straniero. Anche per questo Andreoni  poté influire efficacemente su una questione di grande importanza per la storia del Brasile, il problema dello schiavismo.

I gesuiti, a proposito di questo problema, si erano sempre schierati a difesa della libertà degli indios, rifacendosi anche a documenti pontifici e regi. In quegli anni, due missionari cappuccini avevano invece preso a sostenere non solo la liceità, ma anche la moralità della cattura degli schiavi indios per convertirli alla fede cristiana: avevano così appoggiato i paulisti, favorevoli alla schiavitù indigena. Il re del Portogallo, Pietro II di Braganza, aveva allora ordinato al governatore del Brasile di consultarsi con i gesuiti sui provvedimenti da adottare per fronteggiare la situazione.

Chi in realtà guidò le discussioni, più che il provinciale padre de Gusmâo e il missionario italiano Giorgio Benci, fu l’Andreoni, allora segretario e socio del provinciale. Si poté così giungere alla convenzione del 25 gennaio 1694, che venne sottoposta alla sanzione reale. Con essa veniva tutelata la libertà degli schiavi indios, cristiani o pagani. Ai padroni paulisti, era permesso di servirsi di loro solo dietro equa retribuzione, con l’obbligo di curare l’educazione religiosa e civile degli indios divenuti cristiani. Una speciale commissione doveva decidere sulle eventuali controversie che avrebbero riguardato, soprattutto, la misura della paga agli indios e al loro trattamento. Alla soluzione delle controversie provvidero di lì a poco, tornati a Bahia, padre de Gusmâo e l’Andreoni, che era stato il redattore degli atti.
Padre Antònio Vieira, rimasto estraneo alle trattative e al loro esito, nel 1694 si dichiarò contrario alla convenzione, che, a suo avviso, tutelava scarsamente la libertà degli indios.

La convenzione tuttavia fu approvata nel 1696 con lettere regie, con altre disposizioni in favore degli indigeni brasiliani. Con questa fondamentale decisione venne definitivamente vietato lo schiavismo indigeno, mentre non si condannò lo schiavismo dei negri importati dall’Africa (Angola). Andreoni, dopo sette anni da segretario del provinciale, fu rimosso dall’incarico, nel 1696, su pressione dei confratelli suoi oppositori, capeggiati da Vieira, e inviato a dirigere il collegio di Bahia.

Anche qui non mancarono attriti tra gesuiti portoghesi e italiani, tra i quali Giorgio Benci, Antonio Bonucci, Alessandro Perier, Luigi Vincenzo Mamiani della Rovere; ma padre Andreoni poté divenire provinciale del Brasile per il triennio 1706-1709. Poi fu ancora rettore a Bahia, fìno al 1713. Dopo questa data, scarseggiano le notizie sulla sua vita. Morì nel collegio di Bahia il 13 marzo 1716. Oltre che per la rilevanza che ebbe la sua figura nella vita politica e missionaria brasiliana di quegli anni, Giovanni Antonio Andreoni è ricordato per un suo scritto di grande interesse storico sull’economia brasiliana, apparso nel 1711 a Lisbona: Cultura e opulência do Brasil por suas drogas e minas com varias noticias curiosas do modo de fazer o Assucar, plantar e beneficiar o Tabaco, tirar Ouro das minas e descubrir as da Prata; e dos grandes emolumentos que esta conquista de America Meridional da ao Reyno de Portugal, come estes et outras generosas et contratos reaes.

L’autore preferì usare lo pseudonimo di André Joâo Antonil, ma non per nascondere la propria identità. Infatti firma le prime pagine come “o Anonymo Toscano” e poi dichiara, nel frontespizio e nella dedica, di devolvere i profitti del libro alla causa di beatificazione del gesuita José de Anchieta, dal che si poteva risalire facilmente all’Andreoni.

Terminata la stampa, un decreto reale ordinava il sequestro e la distruzione del libro, come nocivo agli interessi dello Stato: l’ordine fu eseguito così efficacemente che per un secolo dell’opera non si ebbe memoria. Nel 1837 l’editore Villeneuve di Rio de Janeiro lo ristampò, utilizzando una copia sfuggita alla distruzione. Fu lo storico brasiliano José Capistrano de Abreu a risalire al nome autentico dell’autore.
L’opera è un mirabile saggio interdisciplinare che analizza il processo di produzione e di commercializzazione delle quattro principali risorse naturali ed economiche da cui dipendeva la ricchezza del Brasile, e la diffusione delle colonie: lo zucchero di canna, il tabacco, l’oro e le miniere, il cuoio e il bestiame.

Ricca di notizie tecniche, statistiche e finanziarie, oltreché di dettagli produttivi industriali ed agricoli, si conclude con due capitoli, dove viene svelato il flusso di denaro che andava dal Brasile al Portogallo: il gesuita Andreoni  sostiene l’obbligo da parte dei cittadini di versare al re una percentuale dei loro guadagni e in particolare un’imposta sull’oro. Inoltre, e probabilmente questo è il motivo della soppressione del libro, sostiene che il re e il suo governo, godendo di introiti così alti, fossero a loro volta tenuti ad ascoltare i coloni per concordare l’onere e la quantità dei tributi, oltre che le modalità. Una eresia politica, che costò al dotto e solerte gesuita italiano la messa al bando del libro. 

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Andrea Lilli. Bibliotecario-archivista e documentalista, lavora nella Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma.
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N.d.T. Ringraziamo il prof. dr. Edivaldo Boaventura, il dr. Jorginho Ramos e il dr. Bruno Lopes per la collaborazione e aiuto alle ricerche sull'antico Collegio dei Gesuiti. 
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TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

Os Jesuítas na história da Bahia e do Brasil: Giovanni Antonio Andreoni
a curadoria de 
          Andrea Lilli


                                                             
                                  Colégio dos Jesuítas de Salvador Bahia ativo de 1553 até 1759-Terreiro de Jesus
Descoberto pelo portugûes Pedro Álvarez Cabral em 1500, o Brasil foi explorado o ano seguinte pelo italiano Américo Vespucio, e durante as duas primeiras décadas do século XVI, não recebeu alguma influência pela civilização europeia. Foi somente em 1530 que o governo português enviou alguns colonos. Em 1532 fundaram a primeira vila de São Vicente, perto da atual cidade de Santos. No entanto, o número de colonos aumentou rapidamente até que, em 1549, nasceu a cidade de São Salvador, no território do atual estado de Bahia. Durante muito tempo, esta foi a mais próspera das cidades e tornou-se sede do governador geral  e do então vice-rei.  No sul, em 1555, ao redor da casa do padre jesuíta José de Anchieta, em Piratininga, surgiu a cidade de São Paulo que è, hoje em dia, a maior metrópole da América do Sul e de todo o hemisfério sul.

Nos dois séculos seguintes, a vida e a cultura dos povos indígenas se transformou totalmente, devido a uma longa série de motivos conseguentes à  colonização e, de ordem demográfico, econômico, social, político e religioso. Houve um turbilhão de diversidades étnicas, de interesses, idéias, civilização. Esses eventos se caraterizaram pelos fortes  contrastes, teimosos e ferozes, entre colonos e tribos indígenas, pelas lutas dos próprios colonos contra os militares, e as guerras das potências estrangeiras que queriam se apropriar das terras. Lembramos aquì, por exemplo, da tentativa francesa de ocupar posições na Baía de Guanabara e no Maranhão; da expedição dos holandeses, liderada pelo príncipe Maurício de Orange-Nassau à Bahia, que o líder napolitano Vincenzo Giovanni Sanfelice defendeu com sucesso em 1636. Destacamos ainda as guerras dos holandeses em Pernambuco; os piratas ingleses na Bahia, em São Vicente, Santos e Recife, e os sessenta anos de domínio espanhol.

Deste amplio cuadro histórico faz parte também a longa atividade "missionária" e cultural dos padres da Companhia de Jesus, fundada em 1537 pelo basco Inácio de Loyola. Os primeiros jesuítas mais famosos da história brasileira foram o português Manuel da Nóbrega (1517-1570) e o espanhol José de Anchieta (1534-1597, canonizado pelo Papa Francisco no ano de 2014). Na crescente interação entre as diferentes culturas, eles  representaram a "longa manus" da Igreja Católica Romana, trabalhando  estrenuamente para levar  dentro das margens sociais (sempre em favor dos  governadores), as tumultuadas dinâmicas sociais, resultado dos primeiros séculos do colonialismo.

O trabalho dos jesuítas foi täo importante que um dos estudiosos mais conhecidos da história do Brasil, João Capistrano de Abreu (1853-1927), várias vezes afirmou que não seria  possível escrever a história do Brasil sem considerar a da Companhia de Jesus, pelo menos até  1759, ano em que a Ordem foi expulsa do Brasil.

Lembraremos agora de um jesuíta italiano que foi uma das figuras mais importantes na história de Salvador,  Bahia: Padre Giovanni Antonio Andreoni. Seu destino  de vida foi marcado pelo seu conflito com os "poderes superiores", representados pelo padre Antonio Vieira, um  dos jesuítas mais conhecidos,  e pelo governo português no Brasil. Mas, de fato, Andreoni  tornou-se mais famoso por ter escrito, sob o pseudonimo de André João Antonil , o tratado "Cultura e opulencia do Brasil", que, por causa de seu conteúdo, foi censurado e destruido pelo Estado, que o considerou um ato hostil aos interesses do governo (fiscal). Portanto, estamos aqui contando a historia de um jesuíta  que incomodou bastante.   

Toscano como Vespucio, Andreoni nasceu em Lucca, na Itâlia, em 1649, e morreu na Bahia em 1716. Estudou Direito na Universidade da cidade de Perugia e entrou no noviciado da Companhia de Jesus, em Roma, onde fez seus estudos clássicos. Ensinou gramática, ciência, humanidades e retórica, até 1677. Em Roma, em 1680,  terminou os quatro anos de teologia, tendo  dois grandes mestres:  Bartolomeo Carreño e Silvestro Mauro.  

Em 1681, jà ordenado sacerdote, sob o comando do Padre Antonio de Oliveira, procurador das missões portuguesas  em Lisboa, partiu como missionário para o Brasil,  junto com o famoso Padre Antonio Vieira e outros jesuítas italianos.  Em 15 de agosto de 1683, na Bahia, fez o juramento  dos quatro votos: pobreza, obediência, castidade e especial obediência ao Papa "circa missiones".  Nos primeiros  tempos, conforme seu desejo,  exerceu  o apostolado entre os índios no interior, até que os superiores decidiram de destina-lo,  por dez anos, ao ensinamento da literatura nos colégios. Por  mais dez anos, em duas ocasiões diferentes,  foi  mestre dos noviços. Em seguida, e até o fim da vida dele, foi nomeado secretário e membro dos "provinciali" (cargo diretivo dos Jesuítas), diretor do máximo colégio da Bahia e responsável pela província brasileira (1705-1709).

O destino de Giovanni Antonio Andreoni  foi o Brasil (e não o Paraguai, onde parece que tinha sido designado no inicio), e para isso contribuiu muito padre Antonio Vieira, que passou vários anos em Roma. Foi nessa cidade que Vieira ficou impressionado pelo gênio de Andreoni. No inicio Vieira tinha grande estima dele. Depois de um tempo, porém, o português denunciou em Roma o italiano, como instigador de resistência e rebelião entre os jesuítas, dizendo que era hostil a ele,  e como visitante geral no Brasil. Por causa de todos estes contrastes, no Brasil surgiram duas facções, uma em favor do Vieira e outra em favor do Andreoni.  
O grupo de Vieira  tentou dificultar as atividades dos jesuítas italianos no Brasil, referindo-se aos decretos reais que proibiam aos estrangeiros de ocupar cargos governamentais na Companhia de Jesus no Brasil. Além disso, proibia, também, de se deslocar de um lugar para outro. Foi graças à proteção que Giovanni Antonio Andreoni  tinha no confessor do rei de Portugal, Sebastiano Magalhães, que as autoridades coloniais portuguesas foram obrigadas a considera-lo  um portugûes e não um estrangeiro. Assim padre Andreoni  conseguiu  influenciar, de forma eficaz, a questão da escravidão dos indios, um assunto de grande importância na história do Brasil.  

Os jesuítas  defendiam a liberdade dos índios, referindo-se também aos documentos reais e papais. Nesses anos, dois missionários capuchinhos, ao contrário, apoiavam  a legalidade e a moralidade da captura de escravos, a fim de converter os índios à fé cristã. Por isso apoiavam os paulistas que estavamos a favor da   escravidão indígena. O rei de Portugal, D. Pedro II de Bragança, em seguida, ordenou  ao governador do Brasil  de consultar os jesuítas sobre as medidas a serem tomadas para resolver a situação.
Quem liderou a discussão, não foi nem  o padre "provinciale"  de Gusmão, nem o missionário italiano George Benci, mas padre  Andreoni, na época  secretário e membro do "provinciale". Desta forma se chegou  à Convenção de 25 de Janeiro 1694, submetida à sanção real. Por meio da Convenção se protegeu  a liberdade dos escravizados indios,  cristãos ou de outra religião que fossem. Os chefes paulistas podiam desfrutar d o trabalho deles sò se fosse pago a eles, e com a obrigação de cuidar da educação religiosa e civil dos índios que tinham se tornado cristãos. Uma comissão especial devia decidir sobre as eventuais brigas  por causa do salário para os índios e seu tratamento.

Padre de Gusmão, junto com padre Andreoni,  que tinha sido o editor dos atos, deviam providenciar a resolução das eventuais brigas sobre o assunto na Bahia. No entanto Padre António Vieira  ficou fora das negociações e de seu resultado e, em 1694, se declarou contrário à Convenção, pois, em sua opinião, mal servia à defensa  da liberdade dos índios. Apesar disso, a  Convenção  foi aprovada em 1696 pelas cartas régias, contendo também outras disposições em favor dos indígenas brasileiros. Através desta decisão, foi finalmente banida a escravidão indígena, embora não se condenasse a escravidão dos negros  trazidos da África (Angola).

Padre Andreoni, depois de ter exercido por sete anos o cargo de secretário do "provínciale", foi afastado em 1696, sob a pressão de seus irmãos opositores, liderados por padre Vieira. Estes decidiram que Andreoni seria somente o diretor do colégio da Bahia. Aqui, também, houve atrito entre jesuítas  italianos e portugueses, e aqui  destacamos nomes italianos quais Giorgio Benci,  Antonio Bonucci, Alessandro Perier, Luigi Vincenzo Mamiani della Rovere. Em todo caso, padre Andreoni  virou "provinciale" do Brasil no triênio 1706-1709. Em seguida, ele ainda foi reitor na Bahia até 1713. Após desta data, há muito pouca informação sobre sua vida. Padre Andreoni morreu no colégio da Bahia em 13 de março de 1716.
Além da importância que teve a sua figura na vida política e missionário brasileira, o nome de Giovanni Antonio Andreoni é lembrado por  ter escrito uma obra de grande interesse histórico, sobre a economia brasileira, que foi publicada em Lisboa em 1711: Cultura e opulência do Brasil por suas drogas e minas com varias noticias curiosas do modo de fazer o Assucar, plantar e beneficiar o Tabaco, tirar Ouro das minas e descubrir as da Prata; e dos grandes emolumentos que esta conquista de America Meridional da ao Reyno de Portugal, come estes et outras generosas et contratos reaes.

O autor optou pelo uso do nome - pseudônimo de André João Antonil, mas não foi para esconder sua identidade. Na primeira página assina como "o Anonymo Toscano" e declara a doação dos lucros da venda da obra, para a causa de beatificação do jesuíta José de Anchieta. A partir disso, na realidade, podia-se facilmente compreender  quem fosse o autor da obra.  

Um decreto real ordenou a sua destruição total dos exemplares da obra, por ser prejudicial para os interesses do Estado: a ordem foi executada de forma tão eficaz que, durante um século não houve memória dela. Mas em 1837 a editora Villeneuve do Rio de Janeiro, a publicou, usando uma cópia que tinha sido preservada da destruição. Foi o historiador brasileiro José Capistrano de Abreu que descobriu  o verdadeiro nome do autor: padre Giovanni Antonio Andreoni.

A obra é um ensaio interdisciplinar admirável que analisa o processo de produção e comercialização dos quatro principais recursos naturais e econômicos, a partir do quais dependia a riqueza do Brasil, e a propagação de colônias: cana-de-açúcar, tabaco, ouro e mineração, couro e gado. Rico em notícias técnicas, estatísticas e financeiras, bem como detalhes sobre a produção industrial e agrícola, se conclui com dois capítulos, onde é revelado e o fluxo de dinheiro que ia do Brasil para Portugal.

O jesuíta Andreoni  concorda com a obrigação dos cidadãos de pagar ao rei uma porcentagem de seus ganhos e, em especial, um imposto sobre o ouro.  Mas, e provavelmente esta é a razão da supressão do livro, afirma que o rei e seu governo, beneficiando de tanto dinheiro, por sua vez, deviam ter obrigação de ouvir os colonos para chegarem ao acordo sobre a quantidade de impostos, bem como os modos.
Na época, essa foi considerada uma grande heresia política, que custou ao diligente jesuíta italiano a censura e proibição da obra. 


N.d.T.: Agradecemos o prof. dr. Edivaldo Boaventura, o dr. Jorginho Ramos e o dr. Bruno Lopes pela colaboração nas pesquisas sobre o antigo Colégio dos Jesuítas.
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Traduzido do italiano para o português por A.R.R.
Andrea Lilli. Bibliotecário, arquivista e documentalista, trabalha na Superintendência do Patrimônio Cultural, na Prefeitura de Roma