SPECIALE CARLOS NELSON COUTINHO. Un Pensatore Cosmopolita - Testo in italiano e in portoghese -
Florisvaldo Mattos
Carlos Nelson Coutinho
TESTO IN ITALIANO   (Texto em português)

Il.mo. Signor Presidente, Aramis Ribeiro Costa,
Ilustri membri della Academia de Letras da Bahia

Signore e signori, (*)

Solidale e accogliente, con un gesto di pieno umanesimo, l’Academia de Letras da Bahia, in una sessione speciale presta un sentito e meritato omaggio allo scrittore, scienziato politico, professore e pensatore baiano Carlos Nelson Coutinho. Passo ad altri, più competenti di me, la gioia di parlare di colui che viene considerato un brillante e raro intellettuale. Io, mancando di basi filosofiche e abilità verbali, mi limiterò ad una evocazione affettiva, in qualità di amico e, per un buon tempo, suo cognato.
 
In realtà in questo quadro ho scelto di ricordare il giovane di elevata statura, carnagione chiara, capelli rossi e ricci, occhi castano chiaro, viso pacato e voce posata, nei preludi del cammino che lo avrebbe reso un illuminato e fecondo operaio di idee. Non confido nelle date, ma credo di averlo conosciuto intorno al 1960, quando era ancora uno studente che si preparava all’esame per entrare alla facoltà di Filosofia, nell’allora Universidade da Bahia, ma già assumeva posture di analista critico e contestatore degli aspetti della realtà con cui si imbatteva il suo spirito giovanile perspicace, per nulla consone alla quiete civilizzata del suo ambiente familiare, una oasi di calma e sensatezza governata da due simboli. Il padre, Nathan Coutinho, era un uomo sereno e riservato, la cui pacata immagine univa la figura di un politico appartenente ad un partite conservatore con quella di un poeta forgiato nella tradizione parnassiano-simbolista, elogiato come traduttore accorto di Beaudelaire, e la madre, Elza Coutinho, era diligente, modello di bellezza, eleganza e senso pratico. Era quindi un ambiente familiare tranquillo che non gli precluse le prime elucubrazioni intellettuali.
 
Per un certo tempo formammo un gruppo in ambiente cordiale e di franca amicizia, oltre a me, composto da Fernando da Rocha Peres, Roberto Gabriel Dias, Urânia, poi Urânia Tourinho Peres, Isnaia, poi Isnaia Santana Dias, Sônia, sorella, poi Sônia Coutinho de Mattos, e Amelia, poi Amélia Rosa Maia Coutinho, tutti toccati dalle gentili folate del vento matrimoniale. Gli anni si succedevano come l’alba, coronando un periodo che per noi era pieno di promesse del vertiginoso dopoguerra, nel pieno della Guerra Fredda tra le due principali potenze che qui, nella città del Savador di allora, si traduceva in estasi di fiducia e fervore, inebriante atmosfera alla quale il giovane, che confidenzialmente e affettuosamente chiamavamo con il diminutivo di Carlito, si associava con gioia.
 
D’altro lato, vivevamo una quasi romantica euforia suscitata da quelli che erano stati definiti Anos JK, i dinamici cinque anni del governo Juscelino Kubitschek, che lui prometteva, sarebbero valsi cinquanta anni, con l’apporto di grandi trasformazioni di ordine economico e sociale – e perché no anche culturale? – in tutto il Paese. Si andava delineando uno scenario baiano di un futuro immediato pieno di promesse, se non di epifanie. Le ragioni si dovevano a fattori diversi come l’impulso proveniente dalla produzione e raffinamento del petrolio. Ciò esigeva interventi di ammodernamento nelle strutture urbane, specie metropolitane che si ripercuotevano nella crescita della popolazione e nella richiesta di manodopera attiva. Un altro fattore proveniva dal fatto che le aspirazioni portavano ad un emergente processo industriale e alla riconfigurazione delle attività di commercio.

Inoltre si assisteva a una piena vigenza del regime democratico con gli eletti Juracy Magalhães, eletto al governo dello stato e Heitor Dias, sindaco con un piano di miglioramento della vita delle famiglie. Le azioni della Geração Mapa andavano a pieno vapore con progetti innovatori in letteratura, teatro, arti plastiche, cinema e giornalismo, nascevano nuove scuole di arte e istituti della Universidade da Bahia sotto il Rettorato di Edgar Santos; nacque il “Jornal da Bahia”, una novità nell’ancora ristretto mezzo della stampa locale.
 
Nella speranzosa atmosfera delle trasformazioni, il nuovo scenario favoriva la scienza, le arti, il pensiero e la creazione. A tale stato di animo ben si confanno i versi iniziali di una poesia di Yeats (”Velejando para Bizancio”) “terra quella che non serve agli anziani / I giovani ad abbracciarsi, gli uccelli a cantare / Sugli alberi”… E’ questo il panorama che incontrò lo spirito del giovane Carlito, appena laureato in Filosofia. Portava con sé i fluidi di una maturazione culturale che la vita universitaria aggrega, un panorama benefico per un progetto intellettuale destinato a compiersi con successo.
 
Ho seguito da vicino per alcuni anni questo giovane sereno che studiava molto e a molto aspirava, abbracciato a idee e principi che sperava di vedere realizzati.
Giornalista accorto, votato all’attualità, accompagnai da vicino questo fecondo tragitto sia come un interlocutore di temi socio-politici pulsanti che come poeta, coinvolto da letteratura e scrittura, e come testimone del visibile interesse [di Coutinho] per l’opera di grandi romanzieri in cui si rivelavano conflitti palesi nelle società sorte con la rivoluzione borghese. Egli parlava di autori, romanzi, azioni e personaggi con naturalezza e in una prospettiva di realismo critico di ispirazione marxista, che era il cosmo di idee in cui navigava il suo genio.
 
Del secolo XIX non potevano mancare nomi e opere di tre grandi del Romanzo: Stendhal, le peripezie e audacie di Julien Sorel in “Il rosso e il nero”, Fabrizio del Dongo con “La Certosa di Parma”, Balzac con le aspirazioni e le trame di Lucien de Rubempré di “Illusioni perdute”, in una Parigi che si complicava spinta dalla rivoluzione industriale. In Flaubert erano i colpi che le angustie di Emma Bovary assestavano al muro della morale borghese. Interesse simile si manifestava quando i romanzieri erano Tolstoi, con il suo “Guerra e pace”, e “Anna Karenina” per giungere al perturbato Raskholnikof in “Delitto e Castigo” di Dostoevskij o Nikolai Vasilievich Gogol  con “L’ispettore generale” e “Anime morte”.
 
Con lo stesso metro, del secolo 20 non potevano mancare Thomas Mann di “Buddenbrooks” e “La Montagna Magica” come anche “Il Gattopardo” dell’italiano Giuseppe di Lampedusa.  E parlando di teatro nascevano conversazioni su piéces di Georg Buckner come “La morte di Danton” o “L’Opera da tre soldi” e “Madre Coraggio” di Brecht. Ricordo l’aria gaia con cui lui, per parlare dell’efficacia della narrativa, si riferiva ad una frase di Stendhal ne “Il rosso e il nero” quando avvertiva che “politica nel romanzo è come udire un colpo nel mezzo di un concerto”. Ricordo anche il tono ilare delle sue allusioni ad una celebre scena de “Il Gattopardo” quando il principe di Salina consiglia al figlio di arruolarsi negli eserciti rivoluzionari perché le cose continuassero come erano.
 
In queste cordiali conversazioni, misto di filosofia e altre scienze umane, percepivo autori e opere la cui lettura occupava i suoi pomeriggi, notti ed albe. Oltre ai greci Platone, Aristotele ed Epicuro, c’era la presenza obbligatoria, dei sofisti e stoici, Rousseau e Diderot, ma principalmente di Kant, Hegel, Marx e Engels , e infine, tra i molti altri, c’erano le letture dell’italiano Antonio Gramsci, delle cui tesi sarebbe divenuto il maggior conoscitore e diffusore nell’America Latina, senza dimenticare i nomi della Scuola di Francoforte.
Grazie a lui e a sua moglie Amélia, scoprii e lessi il famoso saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, una icona della critica culturale degli anni ‘60 e ‘70.  
 
Arrivati a questo punto del rapido e incompleto schizzo, desidero utilizzare un vocabolo, pur correndo il rischio di sembrare un giudice affrettato e traballante: penso alla “saggezza” come la parola che meglio definisce il destino del genio di Carlos Nelson Coutinho, per la sua attività e per l’opera di pensatore cosciente e chiaro, che attrasse lettori e ammiratori. Lui era un saggio.
 
Circa cinquanta anni dopo, delle sue preferenze mi sono rimaste quelle di filosofia e narrativa.   Ricordo che in relazione alla poesia, anche se non disprezzava l’estro simbolista e arrivava a recitare con intonazione giocosa i sonetti del padre, mi ricordo della sua propensione a scegliere opere di poeti la cui immaginazione creatrice si voltasse alle questioni sociali, senza abominare il lirismo. Forse per questo, o per altre circostanze, la sua ammirazione per il modernismo, posso dire che mi sentii felice perchè la poesia che io facevo all’epoca, con versi che sembravano insinuare utopie campestri, cantando campi, fatiche rurali e eroi rustici, soli benefici e acque redentrici si muoveva e scivolava nel flusso della sua generosa preferenza. Mi sentivo lusingato nel vederlo recitare a voce alta versi o strofe di poesie che più avanti avrebbero composto “Reverdor”, il mio primo libro, pubblicato nel 1965.
 
A proposito di questi anni di convivenza con questo sereno e pacato giovane, ho tracciato un ritratto della Bahia in pieno movimento e sviluppo per liberarsi della sua scomoda corazza provinciale.
Si viveva un clima salutare su vari fronti, quando all’improvviso, (e qui invoco un verso paradigmatico del nicaraguense Rubén Dario) “un gran vuelo de cuervas mancha el azul celeste”, ossia, “un grande volo di corvi macchia il cielo azzurro”. Proprio così, un immenso manto di ombra coprì un eden di speranze: il golpe militare del 1964, con il suo immediato atto predatorio, con  sospetti e violenze contro tutti coloro che aspiravano e lottavano per un Brasile migliore. In questa valanga di gioghi discrezionali, sofferenze di forzature e vincoli inquisitoriali, subìti più per coscienza, parole e pensieri in difesa della libertà popolare, che per cattiva condotta o delitti particolare, il nostro filosofo, araldo delle idee socialiste, si vide costretto a trasferirsi a Rio de Janeiro. Credo che eravamo agli inizi del 1965.
 
Non mi considerate presuntuoso, ma eravamo davanti ad un caso che solo il fato può spiegare. Como accadde e sarebbe accaduto ad altri che vissero simili  vessazioni, forzati a lasciare la loro terra per vivere in altre regioni con altre genti, penso ad un’altra parola che si adatta perfettamente alla biografia di questo nostro pensatore. Carlos Nelson non era condannato alla fatalità della vita provinciale come altri personaggi perché era un cosmopolita, sempre lo fu, dai giorni dei banchi scolastici. Cosmopolita, questa parola che oggi più riflette godimenti e piaceri della modernità suggerendo viaggi, turismo e comodità urbane, in verità incuriosì sempre l’etimologo da quando, (dicono, più di duemila anni fa), fu inventata dagli stoici nell’antica Grecia, infastiditi dal fatto che le persone portavano nel loro nome,  un pezzo della loro origine geografica, come fosse una identità patria. Nella Grecia la patria era la città dove si nasceva. Da qui abbiamo Talete di Milete, Zenone di Elea, Eraclito di Efeso, Apollonio di Rodi e perfino Aristotele di Smirne che popolarono i libri.
 
Così, secondo me, non furono gli sbirri della dittatura a forzare Carlos Nelson Coutinho a trasferirsi, perché la sua vocazione era di un cosmopolita, un cittadino del mondo, del cosmo, come dicevano gli stoici. Non si sarebbe mai potuto identificare, fin da giovane, come Carlito da Bahia, nome più appropriato per sambisti, capoeiristi o poeti de cordel. A lui dedicai una poesia, scritta nel caldo delle ore chiuse dal pugno di ferro dittatoriale negli anni '70 e che si trova nel mio libro “Fabula civil” del 1975, ma venne pubblicato prima, nel 1968, in un quaderno settimanale di cultura del giornale Tribuna da Bahia, coordinato da Bisa Junqueira Ayres, icona intellettuale dell’affermazione femminile tra noi, che leggerò ora per voi, con intimo orgoglio e in memoria del nostro illustre omaggiato.  
 
CAFÉ MATINAL
                                               A Carlos Nelson Coutinho
 
Agora podemos saber o que é pior:
a mente desconexa, a fome a navalhadas.
Mesmo que nos reste a ferida dos signos,
roto lábio sobre espigas de fel,
nada nos salvará, nada será pior.
A luz está no caos celebrando vontades
durando nos espaços matutinos.
No exato momento, ao deus
que nos valeu somos gratos – e mudos
nem mesmo reparamos que se fende
o universo da ilusão.
À lição de modéstia que renova
o passado dos gestos preferimos
o som metálico das vozes – ou apenas
nos rendemos ao peso do silêncio.
 
II
De meu querer me liberto. Agora vejo:
a verdade resiste a meu próprio consumo.
 
E sendo credo e coisa, permaneço
longe de mim e perto da verdade,
canto civil engendrado nas perfídias
do tempo, inscrito no muro do sono.
 
Agora vejo claramente: a luz
rompe o surdo planalto de bandeiras,
favorecida pelo inédito de
tudo. Desce e inaugura para sempre
o instante anônimo da verdade –
o súbito clarão das coisas simples.
 
A luz está no caos. Acorde e veja.
(Fábula civil, Salvador: Edições Macunaíma, 1975)
 
FLORISVALDO MATTOS
(*) INTERVENTO NELLA SESSIONE SPECIALE DEDICATA A CARLOS NELSON COUTINHO TENUTASI ALLA SALA DELLE REUNIONI DELL' ACADEMIA DE LETRAS DA BAHIA,  Solar Góes Calmon
SALVADOR BAHIA - BRASILE-
17/10/2012
Traduzione in italiano di Antonella Rita Roscilli

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Florisvaldo Mattos. Originario di Uruçuca, nel sud dello stato di Bahia (Brasile). E’ poeta e giornalista, professore in pensione della Università Federale di Bahia. Ha avuto incarichi in vari giornali, tra i quali quello di editore capo (“Diário de Notícias” e “A Tarde”, ambedue di  Salvador). E’ stato corrispondente e capo della succursale di bahia del “Jornal do Brasil” (RJ). Per più di dieci anni  si è occupato del supplemento settimanale “A Tarde Cultural”, premiato nel 1995 dalla Associação Paulista de Críticos de Arte (APCA), como Il migliore del Brasile nel punto della Divulgazione Culturale. Dal 1995, ocupa Il seggio nº 31, della Academia de Letras da Bahia. Dal 1987 e il 1989 occupò l’incarico della Presidenza della Fundação Cultural do Estado (Funceb), Opere pubblicate: Reverdor, 1965; Fábula Civil, 1975; A Caligrafia do Soluço & Poesia Anterior, 1996; Mares Anoitecidos, 2000; Galope Amarelo e Outros Poemas, 2001; Poesia Reunida e Inéditos,2011; Sonetos elementais – Uma antologia, 2012 (todos de poesia).Estação de Prosa & Diversos, 1997); A Comunicação Social na Revolução dos Alfaiates, 1998 e Travessia de oásis - A sensualidade na poesia de Sosígenes Costa, em 2004 (gli ultimi sono saggi).



-------------------------------------------------------------------------------


TEXTO EM PORTUGUÊS   (Testo in italiano)

CARLOS NELSON COUTINHO (1943-2012), UM PENSADOR COSMOPOLITA

FLORISVALDO MATTOS


Ilmo. Senhor Presidente, Aramis Ribeiro Costa,
Ilustres membros da Academia de Letras da Bahia

Senhoras e senhores, (*)
Solidária e acolhedora, em gesto de humanismo pleno, a Academia de Letras da Bahia presta, em sessão especial, sentida e merecida homenagem ao saudoso escritor, cientista político, professor e pensador baiano Carlos Nelson Coutinho. Por me faltarem fundamentos de teor filosófico e confiáveis habilidades verbais, transfiro a outros mais competentes a felicidade de discorrer sobre alguém unanimemente enaltecido como um brilhante e raro intelectual, reservando-me apenas a uma evocação afetiva, como seu amigo e, por um bom tempo seu cunhado.

Em verdade nesses rabiscos, optei por lembrar o jovem de elevada estatura, tez clara, cabelos ruivos encaracolados, olhos castanhos claros, rosto pacato e voz pausada, nos prelúdios de sua caminhada para se tornar um iluminado e fecundo operário das ideias. Embora não confie em datas, creio que o conheci por volta de 1960, ele ainda um estudante que se preparava para o vestibular de Filosofia na então Universidade da  Bahia, mas já assumindo posturas de analista crítico e contestador de aspectos da realidade com que seu espírito juvenil perspicaz então se deparava, em nada coincidentes com a quietude civilizada de seu ambiente familiar, um oásis de calma e sensatez governado por dois símbolos: o pai, Nathan Coutinho, homem sereno e reservado, em cuja pacata imagem mesclava a figura de um político pertencente a um partido de matriz conservadora com a de um poeta forjado na tradição parnasiano-simbolista, elogiado como tradutor primoroso de Baudelaire, e sua diligente mãe, Elza Coutinho, modelo de beleza, elegância e senso prático; enfim, um manso lugar que em nada lhe travava as primeiras elucubrações intelectuais.

Durante certo tempo, formamos um grupo de convivência em ambiente cordial de franca camaradagem, além de mim, composto  por Fernando da Rocha Peres, Roberto Gabriel Dias, Urânia, depois Urânia Tourinho Peres, Isnaia, depois Isnaia Santana Dias, Sônia, irmã dele, depois Sônia  Coutinho de Mattos, e Amélia, depois Amélia Rosa Maia Coutinho, alvos todos das lufadas gentis de um vento casamenteiro. Os anos se sucediam como um alvorecer, coroando um período para nós promissor de vertiginoso pós-guerra, no bojo da Guerra Fria travada entre as duas principais potências, que por aqui, na Cidade do Salvador de então, se traduzia em arroubos de confiança e crédulo fervor, inebriante atmosfera a que o jovem, que na intimidade do convívio todos carinhosamente chamávamos pelo diminutivo Carlito, alegremente se associava.

Por outro lado, também vivíamos uma quase romântica euforia suscitada pelo que haviam sido os chamados Anos JK, os dinâmicos cinco anos do governo Juscelino Kubitschek, que ele, presidente, prometia convicto valerem 50, operando mudanças sensíveis na ordem econômica e social – e por que não também cultural? – em todo o país. E desenhava-se um cenário baiano de futuro imediato promissor, se não de epifanias. As razões se deviam a fatores diversos tais como: o impulso advindo da produção e refino de petróleo, exigindo intervenções modernizadoras nas estruturas urbanas, especialmente metropolitanas, que repercutiam no crescimento  da população e na demanda de mão de obra ativa; as aspirações que levavam a um emergente processo industrial e à reconfiguração das atividades de comércio; a plena vigência do regime democrático com os eleitos Juracy Magalhães, para governar o estado, e Heitor Dias, prefeito com planos de melhorar a vida dos seus munícipes; as ações da Geração Mapa a pleno vapor com projetos inovadores em literatura, teatro, artes plásticas, cinema e até jornalismo, tanto quanto a presença das novas escolas de arte e institutos da Universidade da Bahia sob o Reitorado de Edgar Santos; até mesmo o surgimento do “Jornal da Bahia”, uma novidade no ainda acanhado meio da imprensa local.

Nesta esperançosa atmosfera de mudanças, o novo cenário só favorecia a ciência, as artes, o pensamento e a criação. A tal estado de ânimo se ajustariam perfeitamente os versos iniciais de um poema de Yeats (“Velejando para Bizâncio”), “terra aquela que não serve para anciãos/ Os moços a abraçar-se, aves a cantar/ Nas árvores”...  É este o panorama com que se defronta o espírito do jovem Carlito, logo ao se diplomar em filosofia, trazendo consigo os fluidos do amadurecimento cultural  que a vida universitária costuma agregar, benéfico a um projeto intelectual desde cedo nutrido e destinado a cumprir-se com sucesso mais adiante.

Convivi por alguns anos com este jovem sereno que muito estudava e a muito aspirava, abraçado a ideias e princípios que priorizava, alimentando o desejo de vê-los concretizados. Jornalista de antenas voltadas para a atualidade, acompanhei de perto esse fecundo trajeto, seja como um interlocutor de temas sócio-políticos em debate, seja como poeta, envolvido com literatura e escrita, inclusive como testemunha de seu visível interesse pela obra de grandes romancistas, em que se revelavam  conflitos flagrantes  em sociedades surgidas com a revolução burguesa.  Falava de autores, romances, ações e personagens com naturalidade numa perspectiva de realismo crítico de inspiração marxista, que era o cosmos de idéias por onde navegava o seu gênio.

Se era o século 19, não poderiam faltar nomes e obras de três grandes do romance: de Stendhal, as peripécias e audácias de Julien Sorel, em “O vermelho e o negro”, ou do Fabrício del Dongo, da “A Cartuxa de Parma”; de Balzac, as aspirações e artimanhas do Lucien de Rubempré, de “Ilusões perdidas”, numa Paris que se complicava empurrada pela revolução industrial;  em Flaubert, eram os rombos que as angústias de Emma Bovary assestavam no muro da moral burguesa.  Interesse semelhante se manifestava, quando os romancistas eram Tolstói, com seus “Guerra e Paz” e “Anna Karenina”, para logo chegar ao perturbado Raskholnikof no “Crime e Castigo”, de Dostoiévski, ou  ao Nicolai Gogol de “O Inspetor Geral” e “Almas mortas”. 

No mesmo diapasão, se o foco era o século 20, não podiam faltar o Thomas Mann, de “Os Buddenbruks” e “A Montanha Mágica”, como ainda “O Leopardo”, do italiano Giuseppe de Lampedusa. Em sendo o assunto  teatro, fatalmente surgiam peças de Georg Buchner, como ”A morte de Danton”, ou “A ópera dos três tostões” e “Mãe Coragem”, de Brecht, nas conversas.  Recordo o ar folgazão com que ele, para priorizar a eficácia da narrativa literária, se referia a uma frase de Stendhal, em “O vermelho e o negro”, ao advertir que “política no romance é como um tiro no meio de um concerto”. Recordo também o tom hilário de suas alusões a uma célebre cena de “O Leopardo”, quando o Príncipe de Salina aconselha ao filho a se alistar nos exércitos revolucionários, para que as coisas continuassem como estavam.

Nessas tertúlias cordiais, eu pouco enfronhado com filosofia e outras ciências humanas conseguia perceber autores e obras cuja leitura varava suas tardes, noites e até madrugadas. Tinham presença obrigatória, além dos gregos Platão Aristóteles e Epicuro, os sofistas e os estóicos, Rousseau e Diderot, mas principalmente Kant, Hegel, Marx e Engels e, por fim, entre muitos outros, o italiano Antonio Gramsci, de cujas teses ele se tornaria o maior conhecedor e propagador na América Latina, sem esquecer os nomes da Escola de Frankfurt, sendo que foi pelas mãos dele e de Amélia, sua mulher, que vim a descobrir e ler o famoso ensaio de Walter Benjamin, “A obra de arte na época de sua reprodutibilidade técnica”, um ícone da crítica cultural dos anos 60 e 70.  Neste ponto, por esse rápido e incompleto esboço, me vejo com a comichão de usar um vocábulo, correndo o risco de parecer um juiz apressado, senão trôpego: penso em sabedoria como a palavra que mais define o destino do gênio de Carlos Nelson Coutinho, por sua atividade e pela obra de pensador consciente e claro que legou a seus leitores e admiradores. Ele era um sábio.

Cerca de cinqüenta anos depois, quase nada me ficou de suas preferências quanto ao que não se tratasse de filosofia e ficção literária. Lembro apenas que, em relação à poesia, embora não menosprezasse o estro simbolista, chegando a recitar com entonação peculiar, às vezes jocosa, sonetos do pai, lembro-me de sua propensão em eleger obras de poetas cuja imaginação criadora mais se inclinasse para as questões sociais, sem que abominasse o lirismo. Talvez por isso, ou por circunstâncias outras, a sua admiração pelo modernismo, posso dizer que me senti um felizardo, pois a poesia que eu ousava engendrar na época, com versos que pareciam insinuar utopias campestres, cantando campos, labutas rurais e heróis rústicos, sóis benfazejos e águas redentoras movendo rumos, deslizava por remansos na caudal de sua generosa preferência. Sentia-me lisonjeado ao vê-lo ler ou recitar em voz alta versos ou estrofes de poemas que mais adiante comporiam “Reverdor”, meu primeiro livro, editado em 1965.

Tracei antes, a propósito desses anos de convivência com este sereno e pacato rapaz, um retrato da Bahia em plena azáfama desenvolvimentista para livrar-se de sua incômoda carapaça provinciana.  Pois bem, vivia-se esse clima saudável em várias frentes, quando de repente, para invocar um verso paradigmático do nicaragüense Rubén Darío – “Un gran vuelo de cuervos mancha el azul celeste” (traduzindo, “Um grande vôo de corvos mancha o céu azul”), isto mesmo, de repente, um imenso manto de sombra cobriu  um éden de esperanças, o golpe militar de 1964, com seu imediato arrastão de suspeitas e violências contra todos os que aspiravam e lutavam por um Brasil melhor. Nesta avalanche de cangas discricionárias, sofrendo coações e constrangimentos inquisitoriais, mais por consciência, palavras e pensamento em defesa das liberdades públicas do que por má conduta ou delito tipificado, nosso filósofo, arauto das idéias socialistas, viu-se obrigado a transferir-se para o Rio de Janeiro, creio que em começos de 1965. 

Não me tomem por presunçoso, mas estamos diante de um caso que somente os fados explicam. Como aconteceu e aconteceria a outros que viveram semelhantes vexames na ocasião, forçados a deixar a sua terra para viver em outras plagas, com outras gentes, penso em outra palavra que se encaixa perfeitamente na biografia deste nosso pensador: longe de um ser condenado a fatalidades da vida provinciana, como outros, Carlos Nelson era um cosmopolita, sempre o foi desde o cotidiano dos bancos escolares. Cosmopolita, esta palavra que hoje mais reflete gozos e prazeres da modernidade, sugerindo viagens, turismo e comodidades urbanas, na verdade sempre despertou a curiosidade de etimólogos, desde que, dizem, há mais de dois mil anos, foi inventada pelos estóicos, na antiga Grécia, incomodados com o fato de as pessoas trazerem no nome, como identidade pátria, um rastro de sua origem geográfica. Isto mesmo, na Grécia, a pátria era a cidade onde alguém nascia. Daí os Thales de Mileto, Zenão de Eleia, Heráclito de Éfeso, Apolônio de Rodas e até Aristóteles de Esmirna, que povoaram livros. 

Assim, a meu ver, não foram os esbirros da ditadura que forçaram Carlos Nelson Coutinho a mudar-se, a ir embora daqui, pois  sua vocação era a de um cosmopolita, um cidadão do mundo, do cosmos, para seguir a convicção dos estóicos. Desde jovem, jamais ele poderia ser identificado como Carlito da Bahia, rótulo mais apropriado a  designar sambistas, capoeiristas ou poetas de cordel. A ele dediquei um poema, escrito no calor de horas açoitadas pelo guante ditatorial nos anos 70, e que está em meu livro “Fábula civil”, de 1975, mas publicado antes, em 1968, num caderno semanal de cultura da Tribuna da Bahia, coordenado por Bisa Junqueira Ayres, saudoso ícone intelectual da afirmação feminina entre nós, que leio agora para vocês, com íntimo orgulho, em memória do nosso ilustre homenageado.
 
CAFÉ MATINAL
                                               A Carlos Nelson Coutinho
 
Agora podemos saber o que é pior:
a mente desconexa, a fome a navalhadas.
Mesmo que nos reste a ferida dos signos,
roto lábio sobre espigas de fel,
nada nos salvará, nada será pior.
A luz está no caos celebrando vontades
durando nos espaços matutinos.
No exato momento, ao deus
que nos valeu somos gratos – e mudos
nem mesmo reparamos que se fende
o universo da ilusão.
À lição de modéstia que renova
o passado dos gestos preferimos
o som metálico das vozes – ou apenas
nos rendemos ao peso do silêncio.
 
II
De meu querer me liberto. Agora vejo:
a verdade resiste a meu próprio consumo.
 
E sendo credo e coisa, permaneço
longe de mim e perto da verdade,
canto civil engendrado nas perfídias
do tempo, inscrito no muro do sono.
 
Agora vejo claramente: a luz
rompe o surdo planalto de bandeiras,
favorecida pelo inédito de
tudo. Desce e inaugura para sempre
o instante anônimo da verdade –
o súbito clarão das coisas simples.
 
A luz está no caos. Acorde e veja.
(Fábula civil, Salvador: Edições Macunaíma, 1975)
 
FLORISVALDO MATTOS
Palestra proferida na Sala de Reuniões da Academia de Letras da Bahia, Solar Góes Calmon na
Sessão especial em homenagem a Carlos Nelson Coutinho
Salvador, 17/10/2012
Florisvaldo Mattos. Natural de Uruçuca, no sul do estado da Bahia (Brasil), é poeta e jornalista, professor aposentado da Universidade Federal da Bahia; exerceu cargos em vários jornais, entre os quais os de editor-chefe (“Diário de Notícias” e “A Tarde”, ambos de Salvador). Foi correspondente e chefe de sucursal na Bahia do “Jornal do Brasil” (RJ). Por mais de uma década, editou o suplemento semanal “A Tarde Cultural”, premiado em 1995 pela Associação Paulista de Críticos de Arte (APCA), como o melhor do Brasil no quesito de Divulgação Cultural. Desde 1995, ocupa a Cadeira nº 31, da Academia de Letras da Bahia. Entre 1987-89 ocupou a presidência da Fundação Cultural do Estado (Funceb), Obras publicadas: Reverdor, 1965; Fábula Civil, 1975; A Caligrafia do Soluço & Poesia Anterior, 1996; Mares Anoitecidos, 2000; Galope Amarelo e Outros Poemas, 2001; Poesia Reunida e Inéditos,2011; Sonetos elementais – Uma antologia, 2012 (todos de poesia).Estação de Prosa & Diversos, 1997); A Comunicação Social na Revolução dos Alfaiates, 1998 e Travessia de oásis - A sensualidade na poesia de Sosígenes Costa, em 2004 (os últimos de ensaio).