Collezionismo e scientificità nell’antropologia di Curt Nimuendaju
Christiano Key Tambascia
Curt Nimuendaju. Fotografia di Harald Schultz.Per gentile concessione del Fondo della Biblioteca Digital Curt Nimuendaju (http://biblio.etnolinguistica.org/)**
Pochi studiosi sono stati tanto celebri, nella storia dell’antropologia brasiliana, come Curt Nimuendaju (1883-1945), nato a Jena, in Germania, ma naturalizzato brasiliano dopo decenni di lavoro nel Paese. Tuttavia, colleghi e generazioni successive di antropologi non hanno mai condiviso le stesse valutazioni sulla sua opera innovativa nella ricerca etnologica. Nimuendaju è stato costantemente apprezzato come un eccellente etnografo, un ottimo catalogatore, ma approssimativo dal punto di vista teorico – in gran parte perché autodidatta, conseguentemente alla sua vita “nomade”-, dunque per la sua preparazione informale.

Riconosciuto come uno dei padri dell’etnologia brasiliana, caposaldo dell’impegno antropologico indigenista, sensibile alle istanze delle popolazioni che cercò di comprendere, Nimuendaju ha creato col suo lavoro un canale privilegiato per lo sviluppo dell’antropologia brasiliana. Curt Unkel (questo il suo cognome di nascita) emigrò presto in Brasile. Già all’inizio del XX secolo iniziò a fare spedizioni nell’interno del paese, continuando ininterrottamente fino alla sua morte, nel 1945 vicino al villaggio Ticuna, nell’Alto Solimões.[1] Nel 1906 ricevette il nome guarani Nimuendaju, che adottò ufficialmente nel 1922, quando si naturalizzò brasiliano.

E’ interessante notare come l’adozione di questo nome indigeno[2] derivi dalla difficile coniugazione fra lavoro sul campo e accademia brasiliana, fra riconoscimento dei colleghi ed empatia con le popolazioni indigene. Il nome in questo caso non poteva essere più propizio e indicativo dell’aura quasi mitologica che circonda la sua figura. Alimentata, del resto, dalle molte versioni sulle cause della sua morte (naturale, secondo alcuni, assassinato dai “padroni” contro i quali lottava, a favore dei gruppi indigeni, secondo altri), o da storie come quella per cui, per più di vent’anni, i suoi resti mortali vennero conservati nel Museu Paulista di São Paulo, dove lavorò poco dopo il suo arrivo in Brasile.[3]

Nei suoi quarant’anni circa di viaggi raccolse una generosa mole di dati etnografici, cui attinsero antropologi brasiliani e stranieri. Le monografie pubblicate in Germania e negli Stati Uniti, presto riconosciute per la loro importanza, continuano ad essere oggetto di riflessione. La mappa etno-storica che produsse negli anni ‘40 è considerata il capolavoro dei suoi sforzi nel mettere a frutto le esperienze sul campo e la sua conoscenza della letteratura socio-etnologica: un riferimento fondamentale per i lavori futuri su identificazione e localizzazione dei popoli indigeni nel Brasile.

L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009) per esempio, nelle sue “Mitologica” (i quattro volumi di analisi strutturale dei miti amerindi), utilizzò le informazioni raccolte nelle opere di Nimuendaju sui popoli di lingua Jê. Il suo nome divenne famoso in Brasile grazie alle collaborazioni con ricercatori sul campo, ma anche in Europa e Stati Uniti  (come dimostrano le sue relazioni con l’antropologo svizzero Alfred Metraux (1926-1963) e con l’austriaco Robert Lowie (1883-1957), che gli garantirono spazi istituzionali utili alla realizzazione dei suoi viaggi.
Ma questi stessi fattori limitarono il posto di Nimuendaju nella storia dell’antropologia brasiliana. Paradossalmente, gli elementi che ne favorirono la carriera furono anche causa di ostacoli che non riuscì mai a superare.

Infatti, nell’opera e nella carriera di Nimuendaju, si produsse una sorta di specializzazione del lavoro antropologico che permise si’ il suo ingresso nel mondo accademico, ma in modo specifico e limitato. Egli stesso dovette constatare il fenomeno, ben noto nei dipartimenti universitari, della rigida divisione stabilita tra le varie competenze scientifiche. Un sistema confermato, per esempio, dalla celebre teorizzazione di Lévi-Strauss negli anni ‘50, per cui esistono collaborazioni fra ben distinte specializzazioni: il fare dell’etnografo, che si disloca dalle “coordinate” della sua società per raccogliere dati, e quello dell’etnologo o dell’antropologo, che utilizzano tali dati per costruire modelli astratti da comparare ad altre etnografie.

Lowie, nella sua autobiografia, pubblicata postuma, dedica un intero capitolo a Nimuendaju, col quale aveva una regolare corrispondenza e che aiutava nella pubblicazione dei lavori negli Stati Uniti, ove Lowie si era trasferito. Già negli anni ‘20, racconta Lowie, aveva saputo di un etnografo tedesco che viveva da molti anni in Brasile; un ricercatore privo di solida formazione teorica, ma perspicace osservatore, di un “talento naturale” eccezionale. [4] Negli anni ‘30 iniziò tra loro una collaborazione che si protrasse fino alla morte di Nimuendaju. Questi inviava dati etnografici a Lowie, che ottenne una borsa dell’Istituto di Scienze Sociali dell’Università della California per lui e che venne rinnovata per molti anni. Tradusse anche i lavori del collega.

Era il suo alter ego, descritto, non a caso, come una specie di operaio che faceva tutto il lavoro pesante. Eppure Lowie afferma che fu l’osservazione precisa di Nimuendaju a permettergli di scrivere testi che sviluppavano problemi teorici inerenti all’etnografia di quest’ultimo. Dai racconti di Lowie traspare il rammarico e l’ammirazione per Nimuendaju, per il fatto di aver affrontato da solo tutto il lavoro più arduo e pericoloso.

Forse la parte meno analizzata dell’intera opera del tedesco naturalizzato brasiliano, ovvero la sua raccolta di oggetti, può aiutare a comprendere come l’accademia aprì, e allo stesso tempo sbarro’, le porte a Nimuendaju. E’ difficile dar conto di tutti i contributi di Nimuendaju alle collezioni etnografiche sudamericane in musei e istituzioni di ricerca in Brasile e all’estero. Venne convocato per formare raccolte museali in Germania, Svezia e Stati Uniti, ma anche presso istituzioni brasiliane, come il Museo Nazionale di Rio de Janeiro e il Museo Paraense Emilio Goeldi a Belém do Parà, solo per citarne alcune.

Egli vide in ciò la possibilità di conciliare il lavoro etnografico con la difesa delle popolazioni indigene, ma questa attività venne vista con crescente sospetto da certi antropologi, che l’associavano a quel tipo di colonialismo che si avvalse anche di rappresentazioni museologiche. Fatto è che le collezioni di cultura materiale furono cruciali per il finanziamento di Nimuendaju, e che non possono essere dissociate dal contesto della nascente politica indigenista, costruita sotto una prospettiva salvazionista.

Una delle principali istituzioni con la quale Nimuendaju lavorò, inviando collezioni etnografiche di diverse popolazioni indigene, fu il Museo Paraense Emilio Goeldi e ci fornisce esempi che permettono di capire meglio la questione. Infatti, dalla sua fondazione (fine secolo XIX), il museo ebbe il contributo di viaggiatori e ricercatori per la formazione della sua collezione etnografica, considerata preziosa referenza scientifica già nei primi anni della sua istituzione. In quel momento (che si sarebbe esteso fino al periodo in cui Nimuendaju lavorò per il museo) si trattava di fornire basi per lo sviluppo di ricerche scientifiche. Anche se separate dalle collezioni naturaliste, di botanica, geologia e zoologia, le collezioni etnografiche non avevano un’autonomia totale di fronte a queste altre aree della ricerca nel museo.

Attraverso gli sforzi del naturalista svizzero Emilio Goeldi (1859-1917), continuati dai direttori successivi e fino a Carlos Estevão de Oliveira (1880-1946), direttore del museo all’epoca in cui Nimuendaju collaborava, l’istituzione promosse spedizioni per l’acquisto di collezioni e sviluppo della scienza nella regione nord del Brasile[5] . Va detto che la formazione di queste collezioni era elemento di prestigio determinante per ottenere finanziamenti dallo Stato brasiliano per nuove ricerche. Così si comprende la concorrenza tra istituzioni, il carattere geopolitico del suo sviluppo nel Paese e l’attenzione dei responsabili nell’acquistare collezioni che, dopo essere state depositate nei loro fondi, potevano essere riutilizzate per inviarle all’estero[6].

L’importanza della Riserva Etnografica “Curt Nimuendaju” del museo Emilio Goeldi, è data, soprattutto, dalle collezioni inviate dall’etnologo all’inizio degli anni ‘40. Ma è da notare che, se da un lato c’erano dispute di prestigio tra queste istituzioni museologiche con formazioni di collezioni etnografiche, sia nazionali che internazionali, dall’altra, furono questi stessi musei a distanziarsi progressivamente dall’antropologia praticata nelle Facoltà di Scienze sociali. Facoltà che per un processo di autonomia si emanciparono dai musei dalla fine del secolo XIX, iniziando a costituirsi come luoghi in cui si sarebbe consolidata una moderna antropologia, in gran parte grazie agli sforzi del sociologo brasiliano Florestan Fernandes (1920-1995).

E anche se non del tutto svincolate dai corsi di formazione degli antropologi, le istituzioni museologiche, origine di molti dei programmi di laurea e specializzazione, avrebbero avuto un’altra relazione con i lavori accademici prodotti dalla ricerca sul campo: area nella quale si distinse Nimuendaju e nella quale risiede il maggior contributo che oggi gli si attribuisce, messo in secondo piano il suo lavoro collezionistico. Bisogna riflettere, in questo senso, sul fatto che nel periodo immediatamente anteriore alla seconda guerra mondiale venivano sollevate anche preoccupazioni di sovranità nazionale, e sulla motivazione culturale della nascente politica indigenista del Servizio di Protezione agli Indios, che sperava di realizzare un doppio movimento: sviluppo economico e preservazione culturale.

Come ben ricorda Grupioni [7], è questo contesto di consolidamento di strumenti statali per il controllo e la formazione di un’idea di nazione, che aiuta a comprendere l’evoluzione della disciplina antropologica in Brasile, e ad analizzare la posizione di Nimuendaju. L’interpretazione della sua collaborazione coi musei stranieri e nazionali mostra come fossero in gioco questioni più ampie di sovranità, che non rimasero fuori dalle discussioni teorico-metodologiche degli antropologi.
Quando si affrontano i problemi di storia della teoria antropologica non possiamo purtroppo ignorare che, nella realtà, le diverse esperienze nel lavoro teorico o nel lavoro empirico anzichè coesistere e coordinarsi, vennero usate come armi di conflitto fra scuole di pensiero.

Se Lévi-Strauss, per continuare il paragone tra paradigmi, fu accusato di essere un teorico poco disposto allo studio in loco, dall’altra Nimuendaju portò alle estreme conseguenze la pietra angolare della moderna antropologia: lunghi periodi di ricerca sul campo.
 

[1] I Ticuna occupano l’area sudest dello stato brasiliano dell’Amazzonia, ma parte della sua popolazione di circa 40.000 persone abita anche le regioni al confine con il Perù e la Colombia.
[2] Sul significato del suo nome Viveiros de Castro menziona le sue traduzioni etimologiche proposte da Nimuendaju e da Egon Schaden, suo collega nella Università di São Paulo: di “fare casa”, o “conseguire un luogo per sé”. Cf. Viveiros de Castro, Eduardo. “Nimuendaju e i Guarani”. In Nimuendaju, Curt. As lendas de criação e destruição do mundo. São Paulo: Hucite, 1987.
[3] Cf. Laraia, Roque de barros. A morte e as mortes de Curt Nimuendajù. Serie Antropologia, n. 64. Brasilia. UnB. 1988.
[4] C.f. Lowie, Robert. Robert H. Lowie, Ethnologist: a personal record. Berkeley: University of California Press, 1959.
[5] Cf. Leit, Aylce Oliveira. Difusão da Ciência Moderna em Istituições de Ciência e Tecnologia: um estudo de caso: o Museu Paraense Emilio Goeldi. Belém: Museum Paraense Emilio Goeldi, 1993.
[6] Cf. Grupioni, Luis Benzi Donisete. Coleções e Expedições Vigiadas: os etnólogos no conselho de fiscalização das expedições artísticas e científicas no Brasil. São Paulo: Hucitec, 1998
[7] Op.Cit.

**  Il credito della fotografia fu determinato da Herbert Baldus. In: Baldus, Herbert. "Curt Nimuendajú". Boletim Bibliográfico, ano 2, vol. 8, 1945.

 

Traduzione di A.R.R.
Christiano Key Tambascia. Ricercatore collaboratore del "Departamento de Antropologia Social" della Universidade Estadual de Campinas, Brasil. Dottore in Antropologia Sociale nella stessa istituzione.